martedì 13 dicembre 2011

Il padrone di casa

Era un tipo simpatico, cordiale, accogliente. Sicuro della buona impressione che faceva; attento a non essere inopportuno, ma alquanto generoso nei gesti. Era di una cordialità a cui non ci si poteva sottrarre, non prevedeva rifiuti; lui aveva stabilito le regole, anche quelle della cortesia, e io ero nella sua tana, prigioniero della sua buona educazione da ricco borghese. Aveva il piglio di chi ti vuole istruire, educare, come certe donne che pensano tu possa essere argilla tra le loro mani. Dicono di stimarti, apprezzarti, persino volerti bene, ma non vai mai bene così come sei: ti aggiustano, ti modificano, ti rendono più adatto alla loro immaginazione. Torni a essere il bambolotto di quando erano bambine, da accudire, vestire, lavare, rimproverare e portarsi a letto, finché non trovano che occupi troppo spazio anche lì e finisci in un cesto con altri giochi o nel cesto della loro peggiore amica.


Così il mio ospite aveva succhiato la mia libertà e l'aveva riposta nel decanter dove riposava un pregevole Bordeaux, non un grand cru, sarebbe stato un gesto volgare, esibito, non degno del ritratto di se stesso che stava incarnando; del resto non ci eravamo mai incontrati prima, non avevamo ancora avuto il piacere di conoscerci, come avrebbe detto lui.
C’era nel suo sguardo, ma soprattutto nel tono di voce, un’ombra inquietante, qualcosa che egli lasciava sapientemente sfuggire da un controllo non meno oppressivo di quello che esercitava sui suoi invitati. Era la sua esca; sapeva che solo coloro che avessero provato il disagio di accorgersene, avrebbero meritato di accogliere la sua lenta e paziente tortura, quel sapiente ed erotico assaporare a piccoli sorsi la loro anima.
Delia ne era stata conquistata, lo conosceva da tempo, e io non capivo se lo sfilamento della mia libertà fosse solo gelosa competizione. Lei non coglieva quell’ombra malvagia, per lei erano sfumature di eleganza, buone maniere modellate da viaggi, frequentazioni e letture di cui io non avevo mai goduto, stretto nelle mie precarie risorse e che Delia riteneva invece di poter esigere dalla vita, attendendone l’occasione.

A lui non interessava Delia, era una preda troppo facile, come quelle fagianelle che vengono lasciate volare nelle riserve affinché i soci dal fiato corto le possano cacciare con tutta calma, dare una ragione a tutta l’umidità che i loro reumi hanno collezionato e sedersi finalmente a tavola a raccontare dell’Ungheria, dei cinghiali spagnoli, delle oche canadesi delle cento spedizioni di quando non c’erano freddi né fatiche a impedire di riempire i loro carnieri. No, ero io l’animale da catturare e far frollare, mi stimava intelligente e colto molto più di quanto io non fossi grazie alle sciocchezze che certamente Delia gli aveva raccontato: lei mi considerava un uomo di talento, ma un fallito; un fallito tanto più biasimevole quanto maggiore era il talento che riconosceva in me e che giustificava il fatto che si facesse vedere in mia compagnia anche quando eravamo da soli e nessuno poteva in verità vederci. L’ambita preda ero io e lei stessa avrebbe goduto nel vedermi catturato da un uomo così diverso da me, così vicino alle sue aspirazioni, così somigliante a quello che avrei potuto essere - e forse avere - se non fosse stato per colpa mia e per la mia inconcludenza.
Fu a quel punto che non mi volli trattenere. E tra lini, cristalli e porcellane, dalle viscerali profondità dell'anima mi liberai "buono, Lucio, questo vinello", fingendo di soffocare un leggero ruttino"...

martedì 6 dicembre 2011

Il Quizzone


"Signora buongiorno. Siamo della televisione; oggi e' proprio la sua giornata fortunata, sa? L'abbiamo estratta come concorrente da casa del nostro Quizzone. E' contenta? Brava signora. E' pronta?".
"No, mi scusi, non e' il momento. Mio marito sta molto male".
"Benissimo signora! Allora sbrighiamoci, facciamo in fretta nel caso le servisse un aiutino proprio da lui...! Come si chiama suo marito, Guido?"
"No, si chiama Sergio. Ma guardi non e' il caso...".
"Sergio ha detto? E' sicura signora che si chiami Sergio? Non vuole cambiare idea? Ha ancora una risposta di scorta, se vuole...”
“Sì, si chiama Sergio e sta male, Sergio mio”.
“Che peccato signora, un vero peccato. Se avesse risposto “Guido”, avrebbe vinto il nostro premio speciale "vinci con Guido", una magnifica cassa da morto zincata Foppa Pedretti a forma di cabriolet. E' ancora li' signora? Presto signora prima che scada il tempo e Giorgio, cioè... Sergio, l'abbandoni! Ce l'ha la risposta? Ci dica chi conduce il bellissimo show del sabato sul canale nazionale. Chieda a suo marito, a Sergio, non perda tempo!".
"Un attimo, un attimo. Proprio ora. Sergio, Sergiooo... Sergio, ahhh!!! E' morto, il mio Sergio! Sergio, parla Sergio! E' morto... Dio, è morto...".
"Ma che peccato signora mia, troppo tardi! Sergio, anche tu, aspettavi un momento e facevi vincere a tua moglie due sedute gratuite di chemioterapia – pensi signora - al San Raffaele di Milano. Davvero un peccato. Vabbe' per consolazione le regaliamo un buono sconto per due persone per la sua cremazione. E' contenta? Brava signora! Ciao Sergio, sarà per la prossima volta, riposa in pace. E, mi raccomando, continuate a seguirci. In palio, come sempre, ricchissimi premi!"
“Sergio, Sergiooo, oh Dio!!! Sergio... lo show del sabato... magari tu lo sapevi, Sergio, parla..." 

lunedì 5 dicembre 2011

Regalati un sorriso

"Non farti vincere dall'egoismo e anche tu "Regalati un sorriso", contribuisci all'istruzione dei bambini del Sud del mondo; investi nella loro formazione professionale. Piccoli saldatori, fonditori, addetti agli scarti chimici, intagliatori di alberi da gomma, scavatori d'oro nelle miniere, abili scalatori di montagne di spazzatura, piccole portatrici d'acqua, badanti, massaggiatrici. 


Garantisci un lavoro a tutto questo capitale umano che non ha l’opportunità di potersi esprimere: smetti di indugiare e compra anche tu un rene da un bambino povero. Sarà l'investimento del tuo cuore: lo potrai conservare, usare o addirittura rivendere a prezzo maggiorato a chi ne avesse più bisogno di te e coi guadagni fare magari un altro acquisto solidale. Regala e regalati un sorriso, fai un gesto generoso per tanti piccolini cui è stato rubato il futuro. Fallo ora, basta un clic su www.loveandkidneys.com. 
Per Natale, non farti scappare le meravigliose confezioni regalo fatte a mano dai nostri bambini."

mercoledì 30 novembre 2011

L'uomo e la poltrona

Oh, che peso... pfff, mi fa reclinare il mento sul petto, le guance elastiche immobili; non ho mai avuto la pelle della faccia cosi pesante. Un’ espressione fissa, come assopita, un innaturale turgore, idropisico. Le gambe ormai cilindri calcificati, esangui. Sto incorporando me stesso, in uno spesso, acromatico amorfismo, come formaggio che, fuso, raffreddato rapprende. Mi sciolgo in un’unica massa grassa con la poltrona su cui mi spalmo, comodo. Non filtro aria, sono diventato una cosa, liscia, lì nell'angolo, tra gli scaffali dei libri e la gente che passa e si ferma. Una ragazza ne prende uno, distratta, magra, flessuosa, mi guarda e si siede su di me. Prendo lentamente le sue forme, ricalco le pieghe del suo abito corto di maglia leggera; la avvolgo inerte mentre lei sprofonda silenziosamente nella mia materia densa. Legge e soffoca dolcemente e sparisce in me. Seduto davanti a scaffali pieni di libri, la gente che passa e si ferma, morbido, stanchissimo, avvolgente assassino.

lunedì 8 agosto 2011

Parla come mangi: il gusto delle parole

L'italiano senza ortografia è come le note senza le pause: non ne nasce musica. Talvolta penso che avesse ragione quel professore in pensione che in un racconto di Sciascia - magistralmente interpretato al cinema da Volontè - diceva a un tronfio Procuratore della Repubblica che "l'italiano non è l'Italiano, l'italiano è Ragionare".

G. Volontè, "L'italiano è Ragionare" (L. Sciascia)

Ho amici tuttavia che l'italiano lo masticano poco, che non hanno avuto una significativa istruzione formale, ma che ragionano benissimo, con sottigliezza, originalità e acume. Forse l'avvertimento di Sciascia è per coloro che pomposamente l'italiano credono di conoscerlo. Una cosa è infatti fare errori formali quando si hanno gli strumenti intellettuali per non farli, un'altra è farli per mancanza di istruzione. Nel primo caso avrò a che fare con la sciatteria del somaro, il pressappochismo dell'arrogante; nel secondo ho a che fare con qualcuno da cui magari posso comunque imparare qualcosa.
La mia nonna (classe 1896) aveva la quinta elementare, ma aveva il cervello fino e le piaceva leggere e ascoltare la radio. Seguiva il canale retoromancio, perché le ricordava il suono del dialetto dei suoi nonni, facendomi capire che anche la pronuncia dei nostri dialetti ambrosiani è molto cambiata nei decenni.
Quando cercava di parlare in italiano (lo faceva di rado e solo per rispetto di un interlocutore a cui si sentiva inferiore per istruzione) faceva un po' ridere, spesso si prendeva in giro, ma non diceva banalità: parlava di guerra, di fame, della Patria (per lei rigorosamente con la lettera maiuscola) a cui aveva dato oro e pentole di rame, della bellezza del lavoro nei campi e della fatica e amava parlare della morte, del dopo, del "e se sono tutte balle e non c'è niente?". E' morta a 95 anni. Ho passato insieme a lei molte estati fino alla fine: mi ha dato molto più dei libri che ho studiato e degli insegnanti che ho avuto: di Maestri purtroppo non ho mai avuto la fortuna di conoscerne, né sul lavoro né fuori.

Anch'io però ho la sindrome della maestrina con la penna rossa e non sopporto il "qual'è" scritto con l'apostrofo - con buona pace di Tobino e di tutti gli altri toscani - per non parlare di quando accompagna l'articolo indeterminativo maschile o di quel maledetto "pò" che non è neanche un fiume. Non sopporto neppure che si cominci una frase - come ho fatto quattro righe fa - con un "anche", una congiunzione, un avverbio. Pretendo la maiuscola per i nomi propri, per quelli dei miei amici, dei semplici conoscenti e pure dei miei nemici. Che senso avrebbe altrimenti insistere tanto sull'importanza delle persone, del “capitale umano”, se poi i nomi delle stesse li scriviamo in minuscolo? Lascio libertà di scelta per papa e dio che io preferisco scrivere minuscoli per una mia personale forma di integralismo religioso. Perché (con l'accento giusto) la forma è sostanza anche senza scomodare Norbert Elias e tutti quei sociologi lì. E quando la forma non è sostanza (sì, inizio con una bella "e", perché sto dando enfasi), non è neppure forma, ma solo una vuota caricatura della stessa. E' far roteare il bicchiere per far credere d'essere un intenditore di vino.

Tuttavia la lingua vive attraverso le persone che la usano, non si riduce né alla cristallizzazione lessicale né alla sua etimologia: l'”epperò” di Carlo Bo per dire “e perciò” era un vezzo ottocentesco e forse anche una carloboiata. Il significato etimologico inoltre è solo una radice, non comprende tutta la pianta e tutti i frutti che essa può dare. Non ho mai amato D'Annunzio, ma la sua capacità di inventare parole era straordinaria. E così per la forgia letteraria del Gadda e per... il Villaggio. Fantozzi è un capolavoro lessicale: lo “spigato siberiano”, la “mutanda ascellare”, il “megadirettoregalattico”, l'uso originale delle iperboli, la “molta lagunarità” di Venezia, i falsi congiuntivi che tra “venghi”, “facci” e “vadi” sostituiscono alla natura dubbiosa di quel modo, la certezza della volontà di un'ascesa sociale, l'accesso riservato al modo esclusivo di riconoscimento delle classi colte.


Pignoleria e pedanteria fanno molto piacere quando appartengono al neurochirurgo che ci opera al cervello o al pilota dell'aereo sul quale stiamo viaggiando. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli e confonde i contesti. E' però la mancanza di coerenza tra quel che si dice, come lo si dice e quel che si fa che mi disturba assai di più delle sgrammaticature. Se si è fuori dalla sala operatoria e non si sta volando, la sciatteria dell'anima è ben più dannosa di quella del pensiero,

Walk the talk” è una bella espressione angloamericana non tanto dissimile dalla nostrana "parla come mangi". Io interpreto quest'ultima in modo personalissimo e interessato: mangiare bene per parlare bene. Pensare e dire parole gustose, chiare, croccanti, genuine, talvolta delicate, ma, quando occorre, ben sapide o piccanti. In ogni caso, che non manchino mai né di sale né di pepe, sennò è assai più saporito il silenzio. Soprattutto che siano parole nostre, fatte da noi, che raccontino la nostra storia, le nostre abilità e le nostre lacune, i nostri pochi pregi e i molti difetti e non invece acquistate surgelate e riscaldate al microonde.

Mi affascina pensare che le parole nascano dal dialogo, dallo scambio, prendano forma, si colorino, acquistino nuovo significato proprio attraverso la conversazione che ne fa da incubatrice. I pensieri si alimentino, le idee comincino a camminare anche solo per fare il giro del tavolo, gli ascolti si incrocino, i silenzi giungano nel medesimo istante, qualcosa accada di molto profondo: una condivisione, uno scambiarsi gli abiti. Ecco che le parole cominciano a scriversi nelle anime, calligrafie indelebili che a distanza di anni, di esperienze, di vita, di lontananze rimangono reciprocamente leggibili, significati che il tempo non impoverisce.

Approdi sicuri quando anni di misero chiacchiericcio ci portano al naufragio.

mercoledì 3 agosto 2011

Homo homini lupus...

In “Una meravigliosa vita da cani” di Graeme Sims è riportata un'antica leggenda Cherokee che parla dei conflitti che ogni uomo porta dentro di sé. La storia mi è stata segnalata da Paolo G. Bianchi (http://www.formazionezero.blogspot.com/) e narra del dialogo tra un capo Cherokee e il suo nipotino.
Nell'animo abbiamo due lupi in continuo combattimento: uno è il male che ci porta rabbia, invidia, gelosia, scontento, rimpianto, avidità, arroganza, autocommiserazione, prepotenza, rancore, meschinità, menzogna, falso orgoglio, presunzione, egoismo. L'altro invece è il bene che ci regala gioia, pace, amore, speranza, serenità, umiltà, bontà, benevolenza, empatia, generosità, verità, compassione, fiducia."
Il nipotino rifletté allora un po' e poi chiese al nonno: "Quale lupo alla fine vince?"
E il vecchio rispose: "Quello a cui darai da mangiare".

Mi piace questo apologo perché riconduce il dilemma bene-male all'intimo di ognuno di noi: i due lupi li abbiamo dentro e siamo noi che li nutriamo. Ovunque invece i due lupi vengono rappresentati vivere vite separate: il lupo Bene siamo noi, onesti, corretti, etici, attenti, sensibili, integerrimi, "in bicicletta". Il lupo Male sono gli altri, egoisti, carrieristi, cinici, spietati, conformisti, "col suv".
Il tutto mi fa venire in mente una discussione cui ho partecipato più di un anno fa in un forum professionale sull'apologo di una rana che porta generosamente sulle spalle uno scorpione nel guadare un fiume. Lo scorpione alla fine uccide la rana, perché è la sua natura. Gli intervenuti alla discussione stigmatizzarono il fatto che molti (sempre gli altri) nelle aziende si comportino da scorpioni, inaffidabili, pronti a pugnalarti, indifferenti al bene comune, ma solo al proprio interesse.

Peccherò di qualunquismo, ma per parte mia continuo a pensare che nella nostra vita siamo spesso rane e altrettanto spesso scorpioni, non per natura, bensì per volontà e circostanze. Peccato che non siamo mai elefanti, sennò ce ne ricorderemmo.
E' facilissimo essere etici e irreprensibili quando non agisci, quando eviti tutte le situazioni in cui i tuoi valori vengono messi in gioco, quando non devi fare scelte, ma non intendo scelte meramente ideologiche: intendo scelte concrete. Licenzio o non licenzio; abortisco o tengo il bambino; me ne vado di casa o resto con la mia famiglia; non cedo e rinuncio ai vantaggi economici, ma salvo la mia dignità o cedo, perdo la faccia, ma coi vantaggi che ne traggo assicuro ai miei figli un futuro migliore?
Tutte le volte che sento qualcuno vantarsi della propria integrità morale, mi viene sempre in mente quell'aforisma che dice che per avere la coscienza pulita basta non usarla. L'ostentazione della propria moralità è una delle cose più insopportabili nelle persone: è una barriera, un guardare agli altri dall'alto verso il basso, un essere totalmente distratto rispetto alle debolezze e sofferenze degli altri e abbacinato invece dal proprio candore. C'è una ricchezza straordinaria negli errori, nell'incoerenza, nei cedimenti, nei tradimenti verso se stessi e gli altri: la ricchezza di un percorso che ti porta forse a capire meglio chi ti sta intorno, a vestirne gli abiti senza puntare dita, senza giudizi, senza bisogno di ridurre le persone all'etichetta che vorresti appiccicare loro addosso. Comprenderli senza volerli cambiare, migliorare, far crescere, formare. Comprenderli solo per aiutare a cambiare te stesso.


G. Gaber - I mostri che abbiamo dentro

venerdì 22 luglio 2011

La cultura e i saperi

L’espressione cultura del territorio va oggi di gran moda e non solo nelle cantine e nelle cucine, ma anche nelle assisi politiche o in coloro che per far fronte alla disgregazione dell’economia globale, ad essa vogliono opporre il recupero della ricchezza delle produzioni locali che si esprime o con la difesa nazionalistica dei frutti dell’italico ingegno o con la poco felice e un po’ oscura formula del glocalismo.
Preferisco invece pensare all’idea di diversi territori connessi, passando quindi dall'espressione "nostro territorio" a quella di "nostre connessioni territoriali" intendendo in questo modo la possibilità di contaminazioni tra realtà locali distanti che si integrano in una realtà più estesa, un locus fluidus, che non sia indefinito, ma che possa avere molte e diverse definizioni, molti e diversi con-fini, intesi simultaneamente come perimetri e finalità, ma non come frontiere.

L’uso del termine cultura in generale non mi piace né con la maiuscola né senza. Puzza di scuola (le scuole puzzano di pessimi detersivi, ormoni instabili, idee stantie, ignobili motivazioni e - spesso - insegnanti sciatti), di insopportabile - per me che pur sono liberale - pensiero crociano. Mi piace di più l'idea di sapere e saperi. Perché? Perché c'è quella radice sap che li accumuna ai sapori e che deriva dal sale. Il sale dell'intelligenza che dà sapore al sapere. Il sapere si gusta, come le cose buone. Il sapere è volto al futuro, la Kultura al passato; il sapere è generativo, la Kultura fa compiacere delle proprie riflessioni; il sapere si proietta verso gli altri, spinge alla collaborazione, alla ricerca, la Kultura ne è la cristallizzazione spesso intimista. Secondo me la fase progettuale di un'iniziativa allo stato nascente è quella della ricerca e creazione dei saperi, quella dei giorni che precedono il sabato della Genesi.

giovedì 30 giugno 2011

Il Poeta

Incede lentamente, sorridente, tra la sala plaudente, sicuro nel suo completo blu di taglio ordinario, quel tanto di ordinario che lo fa apparire normale, comune, alla pari coi suoi collaboratori, una specie di divisa manageriale, un abito comodo che ha già visto molte platee e raccolti molti consensi, applausi e sorrisi ceramici di circostanza.

S'avvia verso il palco dove lo attende il suo amico, il moderatore, stazzonato nel suo abito di lino chiaro, alternativo, da libero pensatore di nuovi modelli relazionali, nuovi approcci, nuovi linguaggi e qualche vecchia piaggeria.

Due belle poltrone di pelle attendono di accogliere i loro deretani tra le morbidezze di cuscini trapuntati, coerenti col gusto della sala, tutta dipinti, moquette damascate e boiserie brianzole che fanno tanto effetto Villaggio Potemkin.

Solo i relatori importanti hanno l'onore della seduta di cuoio, tutti gli altri invece vengono avvicendati lungo un tavolo di formica da anonima sala conferenze, dal quale poter promuovere loro stessi, l'Azienda e dire qualche frase la cui confezione ha ormai perso freschezza, originalità e pulizia. Se per caso a qualcuno scappa di dire qualcosa di intelligente, sarà l'accurata opera dei moderatori a sterilizzare tutto affinché nessuno degli intervenuti o degli sponsor possa aversene a male.

L'uomo in blu si presenta, tutti lo chiamano direttore delle risorse umane, ma lui preferisce definirsi Poeta e inizia a declamare i suoi versi alla sala attonita, uno sbigottimento che il Poeta e il moderatore leggono come testimonianza di ammirazione. Una poesia, un'altra, alcuni passi da un libro, educati scambi di complimenti, ancora qualche verso tra il brusio degli astanti forse invidiosi per tanta bravura e creatività.

Il Poeta d'un tratto ricorda di lavorare in una fabbrica e di esserne il responsabile del personale ed eccolo prodursi in elevate considerazioni sulla motivazione dei lavoratori e sulla nobiltà del lavoro manuale, l'estetica della fatica fisica, la bellezza del muscolo teso, della fronte imperlata di sudore e delle voci operaie che imprecano se il lavoro non riesce ben fatto. Sembra respirarsi l'atmosfera musicale di certi mercati liguri immortalati da De Andrè.
La fabbrica, le macchine, il lavoratore vengono cantati dal nostro Poeta in un suo nuovo componimento di cui suole omaggiare le sue operose persone che non mancano mai di ringraziarlo commosse. Gli stessi sindacati ormai hanno capito che una gara tra liriche è certamente più costruttiva di qualsiasi aspro confronto e preferiscono l'agone poetico alla lotta salariale. Del resto – come il Poeta non manca di sottolineare con un ghigno sinistramente prosaico – qualche verso ben ritmato, alle casse dell'azienda, pesa sempre di meno di un aumento nella busta paga e sortisce lo stesso effetto ipnotico.
Il pubblico accompagna le parole dell'ispirato responsabile delle risorse umane e il controcanto dell'amico moderatore con un applauso che non esprime tanto consenso quanto adattamento al primo della sala che ha iniziato a battere le mani.
Gli uomini del personale, si sa, sono avvezzi al conformismo e interpretano l'autonomia di pensiero e di volontà come mancanza di spirito di squadra. Il loro modello rimangono gli ovini, da cui indiscutibilmente si ricavano ottimi caci, buone stoffe, mangiano assai meno di quanto producono e ogni tanto s'offrono all'estremo sacrificio.
L'ovino è la perfetta quintessenza della visione del mondo dei direttori del personale e in esso - si dice - si incarnino dopo la morte da pensionamento.
Orbene, recitate le poesie, raccolti gli applausi, attese le liturgiche accondiscendenze da parte del sacerdote celebrante, dal fondo della sala, il tecnico in tuta verde che sta riparando l'impianto delle luci, punta i suoi occhi di fuoco contro il Poeta e con aria fiera, maestosa che lo fa apparire un gigante tra tutti quegli omuncoli e quelle donnicciole, brandendo qualcosa di lucido metallo, lo lancia come un fiore d'acciaio all'indirizzo della testa laureata del Poeta che con un colpo sordo stramazza al suolo in una pozzanghera d'acqua. Giacché di sangue non se ne vede l'ombra.
E subito s'ode un suono delicato, come di cetra e ognuno vede il tecnico in tuta verde accarezzare con la punta delle dita lo strumento a corde e declamare alcuni versi su come si librino nell'aria, come rondini, le chiavi inglesi.

Tutto quel che vi ho detto, a Milano, qualche giorno fa, è realmente accaduto e solo il finale l'ho purtroppo solo sognato.

giovedì 9 giugno 2011

Il cafone aziendale

L’avventura della vita mi ha portato a organizzare un corso di formazione per quadri e dirigenti in una ridente e bella città lombarda del nord est, famosa per l’immasticabile dialetto, l’inossidabile propensione al lavoro dei suoi abitanti, la cucina a prova di Fernet, la ricchezza delle sue casse e la religiosa verecondia delle sue mutande; giacché la curia, in codesta città, si manifesta più onnipotente di quello stesso Signore di cui, da un paio di millenni, s'è presa in carico la promozione, con alterni successi e fantasiose modalità. In una religiosità dei costumi e persino immobiliare.

Il corso per i padri priori dell’operosità e dell’affare era incentrato sui rapporti tra la funzione della produzione e quella commerciale, aree che non di rado faticano a capirsi, ancor meno a stimarsi, spesso amando invece il disprezzarsi.
In aula - la solita anonima aula, inadatta allo scambio maieutico, tipica dei centri di formazione - mi ritrovo sei figuri, il più allegro e sereno dei quali pareva aver inghiottito un flacone di littorio olio di ricino. Cipiglio, sguardo torvo, mascella serrata, risposte monosillabiche: un ambiente già da subito proprio sereno e rilassato.

Tra costoro spiccava uno spilungone con una stramba giacca a metà tra una dinner jacket con il bavero a pinna e un giubbotto sintetico da centauro padano. Scarponi invernali e occhiali scuri di gran moda, dalle lenti azzurrate, che gli davano l’aria lugubre di un uomo della polizia politica di un qualche paese sudamericano, esperto in tuffi oceanici altrui. Davanti a sé, un portatile compatto come una teglia di lasagne, di quelle che si trovano nelle mense nei dì di festa.

Siccome non mi piacciono le barriere e già bastavano e avanzavano i tavoli a tracciare inutili confini nello spazio, gentilmente gli chiesi se potesse riporre la teglia in forno, ma ne ebbi per tutta risposta che a lui non dava alcun fastidio e la lasciò lì dov’era, fissandone lo schermo e picchiettando qualche cosa sui tasti.
Se il buon corso si vede dal mattino, avevo segnali che mi consentivano di fare le più fosche previsioni sullo sviluppo del mio povero intervento.

Invitai allora tutti a spegnere i cellulari e fui molto compiaciuto dal non ricevere alcuna resistenza sennonché, dopo qualche istante, cominciarono a sentirsi le sorde vibrazioni dei medesimi e non una chiamata venne lasciata cadere. Non dissi nulla, cercai di soprassedere. Sbagliando, perché un piccolo seme di frustrazione e rabbia cominciava a buttar germogli in un angolino del mio cervello.

Per una giornata e mezza ho visto di tutto: sbadigli, messaggini inviati e ricevuti, espressioni mortificanti; ogni tanto, occhiate di sfida e segni di disapprovazione. Ma non una domanda intelligente, non un minimo di partecipazione agli esercizi, non il benché minimo segnale di interesse da parte di quasi tutti. E sì che avevo fatto la notte cercando di trovare argomenti che ritenevo potessero essere loro utili; persino spunti per momenti di riflessione individuale, dal momento che intuivo che molti di loro non si fossero mai neppure chiesti se quel che facevano e la vita che conducevano soddisfacessero i loro bisogni.
Con qualche eccezione, mi sentii rispondere che interrogarsi sul lavoro non faceva parte della loro professionalità e che non era la ragione per la quale partecipavano al corso.
Quale questa fosse ancora lo devo scoprire.

Tra frasi denigratorie dei contenuti del corso e atteggiamenti sprezzanti verso di me – mai stato così paziente in vita mia – la mia piantina rabbiosa cresceva rigogliosa e a un certo punto prese il sopravvento. A un’incauta affermazione, infatti, da parte dell’agente segreto sudamericano sul fatto che lui non condivideva – anzi, sul fatto che io sbagliavo nel chiederlo – che i cellulari fossero tenuti spenti, risposi - con perfida serenità - che di solito così pretendevo e che chi non rispettava le regole normalmente veniva invitato ad andarsene. Occorre rispetto per gli altri, ma anche per se stessi e se non si riesce a dedicarsi del tempo, perché diavolo ci si iscrive a un corso?
Continuai col precisare che questa volta tuttavia non avevo insistito perché non si trattava di un corso sulla leadership, giacché il tenere il telefono acceso non è solo una questione di cafonaggine, ma anche di mancanza di leadership e che siccome non potevo preoccuparmi io del loro bon ton e la leadership non era l’argomento del nostro incontro, avevo preferito lasciar correre.

L’hidalgo impallidì assumendo un sinistro colore grigio chiaro rispetto al grigio antracite che aveva avuto fino ad allora e con lui impallidirono i peggiori tra gli altri ceffi: nessuno si era evidentemente mai permesso, durante un corso, di dire loro che non avevano leadership.
Allora, uno di questi, collaboratore del sudamericano, dalla crapa pelata e la mascella volitiva che ricordava facilmente altri buffoni da balcone, indispettito, guardandomi fisso con due occhi di bragia che sopperivano alla totale mancanza di acutezza espressiva, mi domandò perentorio “in che senso mancheremmo di leadership?”.
Molto pacato, comprensivo, ma con l’aria di un medico che deve dare un’inappellabile sentenza mortale, replicai “Nel senso che se ha la necessità di rispondere continuamente al telefono per soddisfare i bisogni altrui (il capo, la moglie, l’amante), significa che altri sono i padroni della sua libertà. La sua libertà non le appartiene più, il suo posto è stato preso dalla voglia di conformismo. Nessuno di voi ha ruoli e responsabilità tali da essere insostituibile; il cellulare che suona in realtà vi rassicura, vi dice che l’azienda non si è dimenticata di voi, la vostra nuova mamma non vi ha abbandonato e il papà vi sgrida, ma vi protegge”. Esageravo ovviamente, ma sapevo di esagerare.

Il ducetto rimase senza parole, negli altri lo stucco che già occupava la scatola cranica ingessò ogni muscolo del viso, fissandoli in una statuaria espressione di resa incondizionata, incapaci com’erano di nuotare nel mare di letame in cui avevo deciso di farli cadere. Non si aspettavano, tapini, che lo spugnoso e paziente formatore che fino a quel momento avevano dileggiato, pensando non se ne rendesse conto, prendesse le sembianze di colpo dell’insegnante più carogna le cui angherie ognuno di loro aveva subito ai tempi della scuola.

Chiusi il corso così, infischiandomene dei loro feedback, ma sicuro di aver fatto almeno due cose buone: l’aver preteso e ottenuto rispetto per me e il mio lavoro e l’averli aiutati a essere un po’ più consapevoli di loro stessi e forse – in futuro – un po’ meno cafoni.

La parola Io - Giorgio Gaber

venerdì 27 maggio 2011

Facimme ammuina...

La domanda posta pubblicamente da un amico e collega su LinkedIn su come, da consulenti, pensiamo di contribuire a creare un’Impresa Diversa (le maiuscole si debbono all’importanza che l’amico-collega dà all’argomento) mi ha stimolato alcune brevi riflessioni su di me. L’amico-collega ha sottolineato più volte la necessità del pensiero critico in azienda, del rimettere in discussione tutti i paradigmi, innanzitutto quello dell’azione e del fare presto e subito.
E’ vero che nelle aziende la retorica del fare sta creando danni a non finire, soprattutto ai cervelli di chi le dirige: un fare fine a se stesso, senza riflessione sugli obiettivi del pianificare e del fare.
La frase più cretina che sento dire è “tutto deve essere pronto per ieri”, come se il ritardo, la mancanza di comprensione delle urgenze non abbia una ragione precisa e cause che dovrebbero essere esplorate con più attenzione del fare purché si faccia. Tuttavia è altresì vero che le aziende esistono per produrre oggetti e servizi, non discussioni, sennò sarebbero accademie o parlamenti. Soprattutto, i consulenti non vengono pagati per dare dei mentecatti ai manager o per fare casino, ma per arrivare a dei risultati accettabili. Tra questi però non credo ci sia il conformismo a ogni costo che nasconde atteggiamenti del tipo “Lei paga, quindi Lei ha sempre ragione, signor Dottor Direttore Generale, slurp…”.

Per parte mia cerco di ascoltare, osservare e capire i soggetti che ho davanti: l'impresa nel suo insieme, l'imprenditore (quando c'è), il dirigente/manager, le persone coinvolte. Capire significa per me cercare di cogliere e raccogliere una serie di dati: obiettivi individuali, collettivi (se ci sono), criticità di ognuno, input di cui ogni parte ha bisogno per il proprio lavoro e output che produce, interessi sottesi (non sempre coincidono - in positivo e in negativo - con le posizioni o gli obiettivi dichiarati), bisogni (non vado nel profondo, non ne ho le competenze. Mi fermo ai bisogni materiali, di informazione o di considerazione che ognuno ha per poter fare il proprio lavoro). Dopodiché ricostruisco il puzzle, come un investigatore ricostruisce le testimonianze, analizzo i pezzi che "non si incastrano", le incongruenze e cerco possibili spiegazioni e soluzioni condivise o condivisibili, compromessi, cerchi e botti cui dare alternativamente colpi.
Uso spesso lo zoom per vedere le cose da vicino e da lontano: infatti il diavolo si nasconde davvero nei dettagli più insignificanti e mi piace la visione di insieme per capire anche quali siano le variabili o le persone non apparentemente coinvolte. Non ho modelli di riferimento da suggerire o imporre, soprattutto non me li ricorderei, e non vado a fare rivoluzioni: cerco di rispettare sempre quello che vedo, anche quando non mi piace. E' comunque il frutto (acerbo, maturo o marcio) degli sforzi e - spesso - delle migliori intenzioni di molti.

Non di rado, tanti problemi sono dati dalla mancanza di comprensione, dagli atteggiamenti prevenuti, ma il confronto aiuta a superarli. La sfera del fare per me rimane fondamentale: nel fare c'è discussione, ripensamento, gioco, spontaneità, creatività, stimolo. Nel fare, lo scambio e le idee devono prevalere sulle gerarchie. Io mi considero un po’ come l'olio lubrificante per una macchina che, attraverso le relazioni, canalizza diversi punti di vista verso risultati concreti.

Credo che il pensiero critico sia utile ex post, in fase di valutazione di quello che è stato fatto e dei risultati. In fase ex ante - secondo me - rischia di non fare andare invece da nessuna parte. Immobilizza, se è una critica fine a se stessa.
Mi piace di più l'idea del fare intelligente: espressione forse presuntuosa, ma - credo - efficace. Che non esime naturalmente da tutte le doverose considerazioni sugli obiettivi e le modalità per raggiungerli, ma cerca di indirizzarle verso un risultato.
Successi, rispetto almeno alle mie aspettative? Talvolta sì e talvolta no. Ogni situazione è a se stante. Io cerco di fare del mio meglio e quello che penso possa essere il meglio per chi mi ha onorato della sua fiducia dandomi un incarico.
Dico quello che penso se è utile che lo faccia, sennò sto zitto per non fare danni, cercando di essere diplomatico nella forma, ma non nei contenuti. Quando mi si chiede di violare quello in cui credo, mando a quel paese, costi quel che costi. E talvolta costa caro.

mercoledì 11 maggio 2011

MBA: l'etica c'è, ma non si vede.

Settimana scorsa, con l’amico Fabio, sono andato per curiosità alla presentazione del corso MBA organizzato dalla MIP, la business school del Politecnico di Milano. L’incontro si teneva nella moderna sede della Bovisa, un concentrato di cemento, lamiere, cristalli e spazi chiusi.
Ordinata, pulita, efficientista, un po’ anonima e – suppongo - timorosa della natura, delle fronde degli alberi e delle foglie, dal momento che le poche piccole finestrelle di una sala ad anfiteatro erano non solo sigillate, ma adeguatamente schermate affinché nessuno potesse pensare che ci fosse della vita là fuori.
Vi era anche una striscia di verde che ho scoperto essere una specie di campo di concentramento per i pochi fili d’erba, cintati da reti e inferriata, evidentemente per timore che l’erba potesse scappare e diffondersi in giro portando elementi di disordine alle cartesiane menti ingegneristiche. Qui e là bottiglie vuote di polietilene, fogli di carta strappati di cellulosa purissima, piccioni a guardia delle suppellettili.
Era sabato e non c’era un bar aperto, neppure di quelli gestiti da quegli umanoidi che ti danno il caffè senza guardarti e senza che tu l’abbia chiesto. Tuttavia di gente, tra corsisti e curiosi, ce n’era parecchia.
Dopo una sosta alle macchinette automatiche per sorbire una bevanda e fare quattro chiacchiere col display, siamo entrati nell’aula e ci siamo uniti ai pochi presenti per ascoltare due ore di esposizione di slide a prova di microscopio elettronico e due testimonianze di valorosi studenti che, per fare un’esperienza così bella come il master, hanno convinto le loro novelle spose a rinunciare al viaggio di nozze. Per mancanza di soldi? Macché, per mancanza di tempo! I giovanotti si sono detti fieri di essersi concessi il lusso, dopo tanto sgomitamento al lavoro, di poter frequentare un così bel corso che porterà indubitabili vantaggi alla loro carriera.
Mi sono reso conto a quel punto che avevo del “concedersi il lusso” un’idea piuttosto diversa e – deduco – sbagliata. Pensavo significasse fare un bel viaggio esotico, acquistare una bella torpedo blu per andare a prendere di sera signore di fluorescente bellezza, sedersi in qualche bistellato Michelin tra cristalli, argenti, lini e sugheri di grande annata. No, non avevo proprio capito niente: il lusso è usare il tempo fuori dal lavoro per fare qualcosa che serva per il lavoro. Aveva ragione una mia vecchia amica non molto fluorescente: nella vita non sarò mai nessuno.
Una volta terminate le esposizioni e le testimonianze, giunge il momento fatidico “Q&A”, dove qualcuno dovrebbe fare domande e qualcun altro rispondere. Come al solito, di domande ce n’erano pochine tranne quelle che tutti si fanno “non ci sono domande perché abbiamo capito tutto, perché non sappiamo che cosa chiedere o perché non vediamo l’ora di andarcene?”. Io una risposta ce l’avrei avuta, ma per educazione decisi di contribuire affinché la relatrice non se ne tornasse a casa con troppi dubbi in proposito. Per un'ingegnere – anche se donna - avere dubbi potrebbe essere dannoso, potrebbe farle male, costringerla a pensare in modo creativo e magari irrazionale. Eccomi lì quindi, come ancora di salvezza, a chiedere “mi scusi, come mai non c’è un corso di Business Ethics nel vostro programma? Al MIT e a Harvard è dal 2008 che si domandano se con gli MBA non hanno fatto grandi pasticci vista la crisi che è scoppiata anche per le dissennatezze e i comportamenti, a volte criminali, di una classe dirigente molto brillantemente masterizzata. E’ iniziata una fase di ripensamento profondo dei contenuti e del modo di fare management. E voi?”.
La povera relatrice non poteva immaginare che la sua ancora di salvezza potesse rivelarsi tutto a un tratto un giuda traditore. Ma sono domande etiche queste che mettono in crisi chi deve rispondere?
Superato l’imbarazzo e la sorpresa, mi viene spiegato che nel programma l’etica c’è ma non si vede. Non è stato previsto un corso specifico perché gli esperti del MIP hanno ritenuto fosse un argomento trasversale e soprattutto perché, come garantiscono al dipartimento di ingegneria gestionale, le ricerche sull’argomento sono ancora agli inizi.
Da giorni mi chiedo chi stia ricercando che cosa e dove, ma confesso di essere ignorante in materia di ingegneria della morale.
Non ho avuto la sfrontatezza di replicare che da Adamo ed Eva e la cacciata dal paradiso, l’etica è sempre stata abbastanza presente nelle cronache di giornali ed ebdomadari; ho poi evitato di parlare di mele e serpenti perché temevo che la nostra ingegneressa potesse pensare che io stessi insinuando che la morale fosse un argomento per biologi e scienziati naturali e non per ingegneri gestionali.
E’ ben vero che si tratta di un argomento trasversale che rientra in tutte le discipline, ma è altrettanto vero che non tutti hanno il linguaggio, la cultura e la capacità di riflessione necessarie per poterne parlare senza banalizzare. Tutti possono chiedersi se quel che fanno sia bene o sia male, se sia giusto o ingiusto, se abbia conseguenze che vadano oltre la propria esistenza oppure no; se l’idea di bene che si possiede sia una e comune a tutti o se ci siano tante idee diverse quanti sono gli uomini. Tutti possono farlo per se stessi: la riflessione non è monopolio di nessuno. Tuttavia, per parlarne a qualcun altro occorrono persone preparate, persone che coniughino il pensiero al comportamento e si interroghino sull’uno e sull’altro con gli strumenti adatti. Per questo hanno inventato i filosofi; per questo i filosofi andrebbero reclutati in un Master in Business Administration in cui si capisca che non sono tanto le risposte a contare, ma la capacità di farsi le domande. Mentre le une infatti mutano col tempo, le altre sono immutabili e ci accompagnano per tutta la vita.

Alla fine io e Fabio ce ne siamo andati a mangiare, chiedendoci l’un l’altro perché mai uno debba frequentare un corso del genere ed entrambi stiamo cercando ancora la risposta.

sabato 7 maggio 2011

Volere e potere: riflessioni sul venditore di Hotdog

Mi piace molto l'apologo dell'uomo degli hotdog e mi ha sorpreso aver letto, su alcuni social network dove è stato pubblicato, commenti che invitavano a non prenderlo sul serio, a non farsi illusioni, a non dare credito all'ennesima americanata per persone mai cresciute. Volere non è potere. Ci è mancato poco che quacuno tirasse fuori il fantasma del Trionfo della Volontà della Riefenstahl o il concetto di volontà di potenza. C'è addirittura chi ha lamentato la scarsa diffusione del pensiero critico, unico antidoto a queste facili seduzioni per menti deboli. Si è sottolineato come tali ottimismi siano destinati a generare solo disillusione, frustrazione e scacco. Volere – ribadiscono - non è potere. La crisi economica e morale sarebbe da considerare un dato di fatto ineluttabile contro cui non si può far nulla tranne un bagno di presunto realismo. Gli hotdog non si vendono perché nessuno se li può permettere: ci sono i precari, i disoccupati, quelli che non arrivano alla fine del mese.
Tutto vero, sia chiaro, non sono bei tempi i nostri, non sono tempi di vacche grasse di certo, ma è la fissazione arbitraria di un rapporto di causa ed effetto che mi lascia perplesso.
Facciamo un salto indietro, per un attimo. Nel 1929, Wall Street crolla, il Reichsmark non vale la carta con cui è fatto, c'è una crisi di liquidità spaventosa, la gente si uccide per la disperazione. E' appena finita quella carneficina della Prima Guerra Mondiale, ma ad essa non è seguita nessuna ripresa economica, anzi. Da 7 anni l'Italia non è più uno stato liberale, ma è governata da una dittatura che svelerà tra breve il suo vero volto totalitario; il paese è in pieno sottosviluppo, milioni di persone emigrano. Intanto una nuova lunga guerra si sta profilando all'orizzonte, una generazione in pochi anni non ci sarà più, la precarietà non è solo economica.
Ebbene, mio nonno nel 1929 - in piena crisi mondiale – testone, ha voluto fondare una sua azienda. Tra alti e bassi, l'azienda continua a esistere tuttora: è stata più longeva del nonno, dei suoi figli, di qualche suo nipote, del Reich millenario, del fascismo e dell'Unione Sovietica. Eppure il nonno aveva tutti contro, non una lira in tasca e un mucchio di debiti sottoscritti da cambiali. Tutte onorate, a quel che, da nipote, mi consta. E non si tratta di una favola.
E' certamente vero che volere non è sempre potere, ma è altresì vero che non volere è sempre non potere. E l'unico modo di sapere se "si può" o "non si può" è provarci. E non c'è filosofo, crisi, weltanschauung, profeta, sibilla, oracolo che ci possa esimere dal provarci.
Mi chiedo quante volte dietro l'affermazione "non si può", non si nasconda la paura di tentare e cambiare o il timore insopportabile che ci riesca qualcun altro togliendoci ogni scusa. Mi stupisce non poco che volere fare qualcosa e provarci pur non avendo nessuna certezza di riuscirci significhi non avere pensiero critico, essere magari un po' stupidotti o condizionati dal modello culturale anglosassone, come se il modello culturale anglosassone non fosse figlio dell'illuminismo e del positivismo, ma dei luna park. Se c'è un pensiero fortemente caratterizzato dal pensiero critico e dalla libertà di indagine, questo è quello anglosassone. Che preferisco ampiamente alla rassegnazione, quella sì acritica e che confonde con straordinaria presunzione la realtà che vede con tutta la realtà: il mondo si esaurisce sulla mia scrivania, la mia stanza è l'universo. Non male, la “volontà d'impotenza” come simulacro di onnipotenza. Altroché voler vendere salsicce a precari, disoccupati o semplici golosi.
Nel cartone animato "La principessa e il ranocchio" una cameriera nera sogna di aprire un ristorante e alla fine ci riesce. Secondo un filosofo acuto, sarebbero cose da non raccontare ai bambini che in questo modo si possono fare illusioni. Dovete rassegnarvi, bambini, perché quando, in quell'altra favola, il lupo si è mangiato la nonna e Cappuccetto rosso, se le è proprio masticate e digerite. Non le troverete vive nella sua pancia. Sono morte sbranate, capito bambini? Sono ormai un bolo grumoso di sangue, ossa e dentiera nello stomaco della belva, non ci sono più. Scordatevele; il cacciatore vi ha imbrogliato. E voi bambini neri, non crediate di potervi mettere in testa di diventare magari – che ne so – ristoratori o – figurarsi - presidenti degli Stati Uniti. Siete matti? I presidenti degli Stati Uniti sono solo bianchi! O no?...
Verrebbe da pensare che forse i filosofi non capiscano granché di cartoni animati... o, più semplicemente, che solo con la volontà si costruisce e solo facendo, creando, si viene a contatto coi propri limiti e si può imparare a superarli o ad accettarli.

Il venditore di Hotdog: un apologo

http://formazionezero.blogspot.com/2011/04/pensiero-del-fine-settimana_14.html

Riporto volentieri questa storiella pubblicata da Paolo G. Bianchi sul suo blog formazionezero.

Pensiero del fine settimana  

"Un uomo viveva ai margini di una strada e vendeva hotdog presso una bancarella allestita vicino alla sua abitazione. L'uomo era sordo e quindi non possedeva una radio, inoltre la sua vista, che con il passare del tempo si era notevolmente indebolita, non gli permetteva di leggere i giornali. Una cosa però era certa: l'uomo vendeva degli squisiti hotdog.

Lungo la strada aveva sistemato dei cartelloni pubblicitari per promuovere la sua attività, ponendo in evidenza la squisitezza degli hotdog che preparava. Con grande entusiasmo gridava ai passanti: "Signore e signori, venite a provare i miei succulenti hotdog!" e i passanti correvano a comprarli. La sua attività era così fiorente che l'uomo dovette procurarsi scorte aggiuntive di pane e salsicce per poter soddisfare i tanti clienti. 
Nonostante la fatica del lavoro l'uomo era soddisfatto e felice. Si procurò persino un fornello più potente per soddisfare la gran richiesta di hotdog e per far prosperare il commercio.

Poichè il lavoro era tanto e da solo non riusciva a farvi fronte, dovette chiamare suo figlio in aiuto, il quale studiava all'università. Ma quest'ultimo, anzichè incoraggiare il padre nella sua attività, prese a dissuaderlo: "Ma papà, è vero che tu non ascolti la radio nè leggi i giornali, ma ti assicuro che gli esperti prevedono un'ondata di recessione. La situazione internazionale è preoccupante e quella nazionale, poi, è perfino peggiore".

Naturalmente le notizie assai poco allegre ricevute dal figlio non mancarono di mettere in allarme il padre che formulò la seguente riflessione: "Dopotutto, mio figlio ha frequentato l'università, ascolta la radio e legge i giornali, sa come gira il mondo, immagino che abbia ragione lui".

L'uomo si affrettò a ridurre le ordinazioni di pane e salsicce, rimosse i cartelloni pubblicitari e si allontanò persino da quella strategica posizione lungo la strada da dove aveva sempre venduto i suoi hotdog. Ben presto le vendite subirono un drastico calo.
"Avevi ragione figlio mio, siamo entrati davvero in un grave periodo di recessione".

dedicato a chi...crede nella crisi e credendoci la fomenta...

giovedì 5 maggio 2011

Cheers

Inauguro oggi il mio blog. Perché ho creato un blog? Non saprei, al momento. Forse sono quelle cose che si scoprono man mano che si scrive.
Lo devo al mio amico Marco che mi ha suggerito l’impresa: mi ha detto che avendo già un mio sito professionale e, essendo già su Facebook, LinkedIn e aNobii, sarebbe stato un utile complemento avere un blog, “per far capire chi sei”. Una frase che mi ha non poco preoccupato: faccio fatica da solo a capire chi sono, figuratevi un po’ se voglio che lo capiscano gli altri. Tuttavia sono molto vanitoso – e questo lo intuisce chiunque – e l’invito suonava sinistro, sì, ma irresistibile. Ed ecco fatto.

Non vi dico la fatica di trovare un layout che mi piacesse: già ho difficoltà tecniche di mio, avrei voluto mettere foto e altri elementi, ma ancora non ho capito come si fa. Magari nei prossimi giorni scoprirò l’arcano.

Perché “Lemon Twist and Olives”? Perché amo il Martini cocktail, che domande! E perché amo la scansione del tempo che il Martini dà: l’attesa durante la preparazione, il gesto sicuro, ma elegante, del bravo barman, il bicchiere degno del MOMA, l’allenamento che richiede il reggerlo con grazia e fermezza e la meravigliosa conversazione che facilita.
Col Martini tra le dita non si dicono sciocchezze, si riflette, ci si rilassa, il cervello si tempera a punta, ma il sorriso ne arrotonda le frasi. Col Martini, è vero, ci si consola, ma preferisco pensare che con esso si facciano progetti, si stringano alleanze, si compongano fratture. Si seduca e si venga sedotti.

Il bello arriva adesso, cioè cercare che cosa diavolo scrivere su un blog. Non gli articoli professionali che finiscono sul mio sito www.lucafornaroli.com, non gli impressionismi, i malumori, i lazzi o le indignazioni che popolano Facebook o le lunghe considerazioni su management e dintorni che scrivo sul gruppo di Impresa Diversa di LinkedIn, tantomeno le recensioni delle mie letture che destino invece ad aNobii. Ma allora cosa? Pensieri in libertà, ma un po’ strutturati? Ma se sono in libertà, non sono strutturati, la contraddizione sarebbe palese. Racconto della mia vita? Per l’amor del cielo, faccio già abbastanza pasticci nel silenzio. E allora che cosa?
Vabbè, lo scoprirò, vedrò che piega prendere e, soprattutto, che piega mi faranno prendere i lettori o, meglio, gli ospiti, giacché credo che il blog sia un po’ come lo studio di casa: si riceve, si discute amabilmente, ci si confronta anche in modo serrato, ma da buon anfitrione e da ospiti a modo, secondo le sane, vecchie regole borghesi.
Quelle stesse che mi inducono ora a offrirvi questo primo Martini. Lemon twist o oliva? Il cocktail party incomincia. Alla nostra.