martedì 13 dicembre 2011

Il padrone di casa

Era un tipo simpatico, cordiale, accogliente. Sicuro della buona impressione che faceva; attento a non essere inopportuno, ma alquanto generoso nei gesti. Era di una cordialità a cui non ci si poteva sottrarre, non prevedeva rifiuti; lui aveva stabilito le regole, anche quelle della cortesia, e io ero nella sua tana, prigioniero della sua buona educazione da ricco borghese. Aveva il piglio di chi ti vuole istruire, educare, come certe donne che pensano tu possa essere argilla tra le loro mani. Dicono di stimarti, apprezzarti, persino volerti bene, ma non vai mai bene così come sei: ti aggiustano, ti modificano, ti rendono più adatto alla loro immaginazione. Torni a essere il bambolotto di quando erano bambine, da accudire, vestire, lavare, rimproverare e portarsi a letto, finché non trovano che occupi troppo spazio anche lì e finisci in un cesto con altri giochi o nel cesto della loro peggiore amica.


Così il mio ospite aveva succhiato la mia libertà e l'aveva riposta nel decanter dove riposava un pregevole Bordeaux, non un grand cru, sarebbe stato un gesto volgare, esibito, non degno del ritratto di se stesso che stava incarnando; del resto non ci eravamo mai incontrati prima, non avevamo ancora avuto il piacere di conoscerci, come avrebbe detto lui.
C’era nel suo sguardo, ma soprattutto nel tono di voce, un’ombra inquietante, qualcosa che egli lasciava sapientemente sfuggire da un controllo non meno oppressivo di quello che esercitava sui suoi invitati. Era la sua esca; sapeva che solo coloro che avessero provato il disagio di accorgersene, avrebbero meritato di accogliere la sua lenta e paziente tortura, quel sapiente ed erotico assaporare a piccoli sorsi la loro anima.
Delia ne era stata conquistata, lo conosceva da tempo, e io non capivo se lo sfilamento della mia libertà fosse solo gelosa competizione. Lei non coglieva quell’ombra malvagia, per lei erano sfumature di eleganza, buone maniere modellate da viaggi, frequentazioni e letture di cui io non avevo mai goduto, stretto nelle mie precarie risorse e che Delia riteneva invece di poter esigere dalla vita, attendendone l’occasione.

A lui non interessava Delia, era una preda troppo facile, come quelle fagianelle che vengono lasciate volare nelle riserve affinché i soci dal fiato corto le possano cacciare con tutta calma, dare una ragione a tutta l’umidità che i loro reumi hanno collezionato e sedersi finalmente a tavola a raccontare dell’Ungheria, dei cinghiali spagnoli, delle oche canadesi delle cento spedizioni di quando non c’erano freddi né fatiche a impedire di riempire i loro carnieri. No, ero io l’animale da catturare e far frollare, mi stimava intelligente e colto molto più di quanto io non fossi grazie alle sciocchezze che certamente Delia gli aveva raccontato: lei mi considerava un uomo di talento, ma un fallito; un fallito tanto più biasimevole quanto maggiore era il talento che riconosceva in me e che giustificava il fatto che si facesse vedere in mia compagnia anche quando eravamo da soli e nessuno poteva in verità vederci. L’ambita preda ero io e lei stessa avrebbe goduto nel vedermi catturato da un uomo così diverso da me, così vicino alle sue aspirazioni, così somigliante a quello che avrei potuto essere - e forse avere - se non fosse stato per colpa mia e per la mia inconcludenza.
Fu a quel punto che non mi volli trattenere. E tra lini, cristalli e porcellane, dalle viscerali profondità dell'anima mi liberai "buono, Lucio, questo vinello", fingendo di soffocare un leggero ruttino"...

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