domenica 27 novembre 2016

Living room: lo spazio dove si vive. 2a parte.


L'uomo e l'ambiente: una liaison dangereuse

A questo punto diventa importante capire come noi, in quanto persone, ci relazioniamo con questi spazi, come interagiamo con essi una volta che abbiamo contribuito alla loro de-finizione cioè, letteralmente, al tracciamento dei loro confini, anche solo limitatamente alla disposizione delle cose sul nostro tavolo in ufficio o nel nostro armadietto. Come l'osservatore dei tagli di Fontana, dovremmo cercare di capire se subiamo o invece creiamo lo spazio circostante, se lo contempliamo quasi religiosamente nella sua bellezza o se lo riempiamo con la nostra vitale presenza, in uno sforzo teso a una maggiore consapevolezza del nostro ruolo, del bisogno che abbiamo di ordine o di disordine, di spazi vuoti o pieni e della coerenza tra l'ambiente in cui ci muoviamo e del modo in cui l'abbiamo trasformato e i nostri desideri e aspirazioni. In altre parole, molto semplici e semplicistiche: perché se amo l'ordine e l'armonia, vivo nel disordine e creo continuamente confusione? Perché se sono attratto dal kósmos creo il chàos intorno a me? Perché se sono un persona a cui piacciono i progetti e confido in un futuro più soddisfacente, mi crogiolo invece a contatto coi ricordi di un brutto passato? In estrema sintesi, domande come queste sono riassumibili in un unico interrogativo: se cioè lo spazio intorno a noi rifletta quello che siamo o invece rappresenti la persona che vorremmo essere.

Riflettere su che cosa vogliamo dall'ambiente in cui viviamo e operiamo, da cui fuggiamo o che ricerchiamo nel nostro tempo libero, ci aiuta a scoprire le radici delle nostre apparenti non scelte e ci aiuta a prendere le decisioni per modificarle o confermarle. Già cambiare lo spazio, segmentarlo diversamente, liberarlo dalle troppe cose presenti, ordinarlo secondo una regola che abbiamo deciso autonomamente e che non necessariamente debba seguire le convenzioni sociali, può rivelarsi uno straordinario strumento di cambiamento interiore. Agisco su di me attraverso l'azione sullo spazio intorno a me. L'intervento sull'ambiente in cui si vive apre le opzioni per realizzare gradatamente anche un cambiamento interiore, per diventare quella persona che si è deciso di essere se essa rappresenta per noi ancora una pienezza di significati e non è invece solo il prodotto di condizionamenti, mode, conformismi. Tuttavia, affinché il rapporto con lo spazio sia consapevole e possa aiutarci a cambiare o a confermarci nelle nostre scelte, dobbiamo alimentarlo, renderlo oggetto di attenzioni costanti, non solo di un'iniziativa una tantum frutto casuale di una giornata particolarmente creativa. Si ritorna così all'estetica giapponese da cui siamo partiti: l'ambiente esige cure, non diversamente da un bonsai o da qualsiasi realtà vivente. Cure attraverso cui manifestiamo la nostra personalità agli altri, ma soprattutto a noi stessi: un quotidiano coltivare la propria libertà attraverso piccoli compiti che ricostruiscano o proteggano l'armonia dello spazio in cui viviamo e che ci deve rappresentare anche attraverso il disordine se è il disordine quello che vogliamo perché siamo stufi di una vita troppo piena di regole ed etichette. L'armonia deve essere tra l'ambiente esterno e la nostra interiorità e non tanto tra gli oggetti, se non è l'armonia tra gli oggetti quello di cui abbiamo bisogno e che ci interessa. La cura, le attenzioni sono volte quindi a proteggere quel confine fragile che corre tra l'ambiente come luogo dove esprimiamo la nostra libertà e l'ambiente che ci ossessiona con i suoi obblighi, la frustrazione dei lavori domestici o dell'attività professionale, l'oppressioni delle relazioni sociali e persino familiari. Occuparsi dello spazio intorno a noi non deve significare quindi crearsi un'altra gabbia da dover tenere pulita, ma poterci muovere e vivere in un luogo fisico e simbolico che ci sia congeniale, che sentiamo finalmente come nostro, attraversato anche dal nostro spirito, frutto della nostra libertà e di quella di coloro che vivono con noi.




L'estraneità dell'ambiente di lavoro

Un'analoga riflessione può essere condotta su un piano meno esistenziale, ma non per questo meno condizionante, qual è quello rappresentato dall'ambiente di lavoro, soprattutto se è uno spazio che altri hanno voluto, organizzato e di cui hanno deciso le regole. Il contesto organizzativo è caratterizzato da rapporti più superficiali e temporanei rispetto a quelli che definiscono la natura del nostro ambiente privato. Tuttavia, tale superficialità riesce a esercitare un impatto molto profondo sul nostro benessere, sull'immagine che abbiamo di noi stessi e persino sull'ambiente dove viviamo. La costrizione della nostra libertà che subiamo al di fuori del nostro spazio ideale inevitabilmente si ripercuote su quest'ultimo, trasformandolo o nel buen retiro dove possiamo riprendere confidenza con noi stessi o nello specchio impietoso delle nostre frustrazioni e incapacità di dare una direzione alla nostra vita. Il rapporto tra gli spazi dove viviamo è sempre interdipendente e noi siamo il trait d'union tra tutti loro: è una pia illusione, un autoinganno, credere di poter "chiudere saracinesche" o creare compartimenti stagni. Si può solo cercare di migliorare la relazione con i vari ambienti trasferendo il bene, il buono e il bello dall'uno all'altro nei limiti delle nostre possibilità.

Una buona gestione manageriale non può sottovalutare l'importanza dell'ambiente sulle persone/risorse che lo occupano e su come questo possa condizionare il loro lavoro in termini di creatività, originalità, responsabilità ed efficacia. Il dogma e il falso mito dell'efficienza sembra invece prediligere ambienti freddi, dis-umani, illuminati male, aerati in modo artificiale e malsano, arredati con mobili freddi, poveri, ma costosi, che puzzano di colle tossiche e formaldeide. Siamo tornati molto indietro rispetto al modello di azienda che un gigante come Adriano Olivetti cercò di realizzare, in cui l'ambiente di lavoro potesse diventare luogo di crescita e di benessere per le persone.
Senza voler seguire la complessa filosofia olivettiana, basta veramente poco per creare uno spazio in cui
lavorare più decentemente: per esempio, basta coinvolgere, prima delle decisioni di arredo o di organizzazione degli ambienti, le persone che ci andranno a lavorare, che spenderanno lì otto ore al giorno della loro vita. Capirne le esigenze e i bisogni e cercare di venire loro incontro significa costruire un progetto comune di cui tutti sono responsabili e di cui tutti accettano gli inevitabili compromessi con più facilità. Non si tratta di essere utopisti o particolarmente illuminati, c'è già qualche interessante caso del genere in Italia come l'ambiziosa struttura di Zambon progettata da De Lucchi a Bresso con il coinvolgimento del personale. In quel caso sono stati investiti milioni, ma il principio può essere realizzato con una minima spesa, spesso inferiore a quella che qualche consulente può aver preventivato per la realizzazione di una struttura dove lui peraltro non metterebbe mai piede.


Corpo e scrittura

Un'ultima annotazione che non vuol essere ironica e che torna alle tematiche esistenziali e strettamente personali, evidenziando la straordinaria importanza dell'ambiente fisico. È curioso come quando si affrontano i disturbi alimentari in pochi si pongano il problema dello spazio: ci si concentra sul peso, ma raramente sul volume del corpo. Eppure la prima conseguenza visibile dell'obesità o della denutrizione volontaria è l'aumento o la riduzione del volume e quindi dello spazio occupato. Attraverso un'alimentazione eccessiva o insufficiente posso sia affermare la mia presenza, imponendomi agli altri, sia al contrario sparire dissolvendomi. Il rapporto con l'ambiente circostante diventa dalla nascita una perenne sfida tra l'affermazione e la negazione di sé, una rassicurazione circa la propria presenza o assenza di fisicità. È una relazione originaria e condizionante molti aspetti dell'esistenza, una matrice spesso per tutti gli altri tipi di rapporto di cui sono parte.

In conclusione di questo lungo excursus un po' impressionistico e poco sistematico sul rapporto tra spazio e individuo, merita di essere accennato un paragone con la scrittura. Scrivere, a mano, è muoversi su uno spazio vuoto dando vita a segni che lo suddividono e gli conferiscono significato. La lettera, la parola e infine il testo scritto, non solo riempiono lo spazio del foglio, ma lo ampliano con i contenuti che esprimono, siano anche solo una lista della spesa o delle cose da fare. Un rettangolo bidimensionale diventa così una pluralità di realtà diverse, di oggetti da acquistare al supermercato o di commissioni da portare a termine, persone da incontrare, luoghi verso cui dirigersi: si formano insomma altre dimensioni che trascendono quello spazio vuoto iniziale.
Non diversamente, interagendo anche fisicamente col nostro ambiente, abbiamo il potere di conferirgli nuovi significati, arricchirlo di nuove estese potenzialità, trovare in esso nuovi ambiti e possibilità esistenziali, ridisegnando così il rapporto con noi stessi e con gli altri.

martedì 22 novembre 2016

Living Room: lo spazio dove si vive. 1a parte.

Premessa in compagnia di Lucio Fontana

La recente visita allo showroom di oggetti e mobili di design di varie epoche che Daniele Cislaghi è riuscito ad allestire ad Abbiategrasso, grazie ad anni di ricerca e di contatti in tutto il mondo, mi dà lo spunto per qualche riflessione sul nostro rapporto con lo spazio dove viviamo. Innanzitutto osservo con piacere che un'esposizione di begli oggetti in un ambiente curato e opportunamente studiato contribuisce all'innalzamento dell'attenzione per la cultura materiale in un'area del milanese tradizionalmente sonnecchiante e piuttosto arida. Uno spazio privato che diventa per la sua stessa presenza una ricchezza comune e che sarebbe perfetto per ospitare iniziative coerenti con lo spirito che lo anima.
Muovermi in quelle sale mi ha nuovamente fatto pensare ai Concetti spaziali di Lucio Fontana, i suoi tagli nelle tele. Fontana squarcia la bidimensionalità monocroma della tela con tagli secchi, affilati, netti, che sembrano aprire il varco a una nuova dimensione sottostante. Il taglio apre lo spazio chiuso, confinato, della tela. Sotto di essa appare un mondo imperscrutabile o, meglio, solo perscrutabile dalle fessure create, un mondo nero d'ombra, una meta-realtà davanti alla quale l'osservatore non sa più se egli è ancora il soggetto che osserva o se diventa l'oggetto che viene osservato da qualcuno indefinibile e non identificabile che lo guarda al di là dei tagli. È veramente affascinante come la semplice azione del guardare un'opera - un gesto spesso passivo e inconsapevole - possa condurre lontano, verso un'involontaria dimensione esistenziale. Chi sono io, un soggetto che pensa, riflette, decide e agisce liberamente o un povero prigioniero delle proprie convinzioni, ambizioni e abitudini, oggetto dello sguardo commiserevole di qualcuno che neanche riesco a vedere? Sempre, l'arte - quella vera - riesce a parlare senza intermediazioni al nostro cervello e alla nostra pancia in modo imprevedibile e inaspettato.


Lo spazio e le cose: dalla Toscana al Giappone

In inglese il salotto si chiama living room, cioè lo spazio dove viviamo, in cui siamo più genuinamente noi stessi, dove ci riposiamo, leggiamo, scriviamo, ci intratteniamo coi familiari e riceviamo i nostri ospiti. Lo spazio dove la nostra personalità si manifesta, dove diventiamo soggetti. Lo spazio che noi stessi abbiamo disegnato, arredato, riempito. Non è possibile vivere senza una costante dialettica con lo spazio circostante:
una dialettica dinamica, che muta in continuazione. Il nostro muoverci modifica lo spazio intorno e lo spazio condiziona il nostro movimento. Non siamo mai quindi nello stesso posto anche se ci torniamo decine di volte al giorno. Proprio come non riusciamo a bagnarci due volte nelle stesse acque del famoso fiume di Eraclito.

Qualsiasi oggetto modifica lo spazio in cui è collocato, traccia alcune linee invisibili, cattura l'occhio verso se stesso: basti pensare a un albero nel mezzo di un paesaggio toscano o a un airone posato elegantemente tra due risaie. Senza quei testimoni il paesaggio muta di significato, diventa meno visibile, non colpisce la nostra attenzione. Una stanza vuota dalle pareti bianche è qualcosa di essenzialmente diverso dalla stessa stanza in cui dal soffitto penda una scultura di Calder, coi suoi colori, il suo muoversi all'aria, al nostro passaggio, come rami e foglie leggere. La stanza stessa sembra muoversi, ingrandirsi, avere una funzione che le conferisce senso.
La delicata eleganza degli interni delle case giapponesi, così mutevoli grazie all'uso delle pareti scorrevoli, così funzionali a un ideale estetico che sembra improntato al rispetto: un ambiente rarefatto in cui le poche cose tuttavia impongono rispettosamente la loro silenziosa presenza. In cui le persone - come già fece notare Bruno Munari in "Arte come mestiere" - non possono lasciarsi andare a comportamenti fuori misura, perché l'ambiente di carta di riso e listelli di legno rischierebbe di venirne danneggiato. L'armonia si spezzerebbe; quella stessa armonia che trova una sua straordinaria espressione nel tokonoma, l'angolo della casa destinato ad accogliere una pianta, un vaso, un pannello disegnato o una pergamena che ne fanno una sorta di altare laico, naturalistico e spirituale.


La casa e la "strada"

Per contrasto, invece, immaginiamo quelle case - spesso le nostre - piene di oggetti accumulatisi quasi a caso, senza una legge, frutto di viaggi, esperienze, ricordi, disattenzioni. Oggetti che sembrano dover riempire un vuoto e che ci impediscono di muoverci comodamente, ma che tuttavia talvolta hanno il potere di aprire spazi mentali, in cui ritroviamo noi stessi nella memoria di quell'incontro, quell'affetto, quell'avventura di cui non ci resta altro che una foto, un souvenir, un frammento di pensiero ed emozioni. Le persone anziane soprattutto fanno di questi spazi mentali - che si aprono nel vedere o toccare uno dei loro oggetti consumati dal tempo - una nuova dimensione vitale: lo spazio fisico che riescono a percorre con gli anni è destinato a ridursi, i movimenti si accorciano e si rallentano, ma una nuova comfort zone domestica prende forma in cui le coordinate dello spazio e del tempo si sovrappongono; un ricordo è infatti sempre anche un luogo, un'atmosfera, un orizzonte che non ha nulla ha che fare con quello che essi vedono al di fuori della finestra o al di dentro del tubo catodico.

Le case dove abitiamo o gli uffici dove lavoriamo sono segmentazioni dello spazio sia interno sia esterno. All'interno, l'ambiente ha in molti casi destinazioni specifiche legate alle persone, non solo alle funzioni: la camera dei genitori, quelle dei figli, la scrivania del collega, la sedia a tavola in cui si siede "solo" il nonno. Violare queste attribuzioni non di rado crea scompiglio, conflitto. Quel piccolo spazio è percepito come parte integrante della nostra personalità, vederselo sottratto è sentito come violenza, sopruso.
All'esterno, la casa pone i confini tra il nostro spazio privato, quello altrui (i vicini, ad esempio) e quello pubblico. È la casa che fa sì che ci sia un dentro e un fuori, un noi e un loro. La casa può essere pertanto rifugio, protezione, laboratorio, conforto, ma anche tana, prigione, disimpegno, indifferenza. Giorgio Gaber anni fa scrisse una meravigliosa canzone, C'è solo la strada (https://youtu.be/OBthTGY-zZs), in cui, evidenziando i rischi del chiudersi in casa, nel proprio particulare, enfatizzava invece l'importanza della strada come luogo di incontro, di sviluppo della personalità e di crescita della società. La casa aperta è un'efficace metafora di questo bisogno non solo di protezione, ma anche di partecipazione, di confronto. Le splendide architetture di Mies van der Rohe sono il più bell'esempio di spazio domestico dove il confine tra dentro e fuori è indefinibile, di una casa che grazie alle immense pareti vetrate si apre al mondo e alla natura e li fa entrare.
(continua)