L’arte
figurativa, la letteratura e la musica hanno, tra i numerosi pregi,
quello di stimolare il pensiero, dare suggerimenti e creare
suggestioni che possono spingere a qualche insolita riflessione sul
mondo intorno a noi. Mentre gettano un lampo di luce sulla
comprensione dei fenomeni, proiettano anche un’ombra di dubbio là
dove tutto sembra limpidamente certo.
Nel
precedente post avevo cercato di mettere in relazione la pop-art di
Andy Warhol con un oggetto di culto come l'iPod, rilevando come nella
prima siano stati trasfigurati in forma artistica non solo i prodotti
di massa come la zuppa Campbell, ma anche il processo stesso di
produzione attraverso la continua riproposizione in vari colori dello
stesso manufatto. Il genio di Warhol e la sua capacità di
interpretare e influenzare la modernità sono andati tuttavia oltre:
è sintomatico infatti che, tra le merci in serie, egli abbia
considerato anche i personaggi pubblici, gli attori, i politici, le
icone che ai suoi tempi riempivano le pagine di Life e Time o gli
schermi televisivi. Loro stessi erano e sono percepiti e
rappresentati come oggetti, in qualche modo, resi accessibili al
pubblico attraverso i media e continuamente riproducibili in varie
versioni. Tuttavia Warhol non si è fermato alla rappresentazione dei
prodotti e del processo, ma, attraverso la sua stessa persona, il suo
essere artista, ha saputo divenire l'incarnazione della fabbrica:
proprio grazie alla reiterazione del medesimo atto creativo, che
diventa la trasfigurazione del concetto di riproduzione all'infinito,
ha letteralmente “lanciato” sul mercato dell’arte un'identica
gamma di merci differenti: la zuppa Campbell, Mao, la Taylor, la
Monroe, ecc.
Nel caso
dell'iPod, invece, non è il prodotto di massa a diventare arte, ma –
come ho scritto – è l'estetica che riveste di sé il bene di largo
consumo: la tela è rappresentata dall'alluminio, dalla plastica, dal
silicio dell'iPod su cui viene depositata un'idea di bellezza delle
forme e dei colori; la materia diviene simbolo di una concezione
estetica e di appartenenza a un gruppo di persone che la comprendono
e la condividono.
Si può
allora immaginare il lettore musicale della Apple come il risultato
di un tipo di marketing che segmenta l'acquirente in base ai gusti e
allo stile di vita cercando di definire anche una nuova identità: il
suo prezzo – significativamente più alto di quello dei concorrenti
- comprende così non solo le sue prestazioni, ma soprattutto l'idea
che ne sta alla base. Diviene oggetto imitato, copiato e nessuna
imitazione è in grado di veicolare gli aspetti immateriali che
rendono l'iPod diverso. Il fenomeno riguarda – con diverse
sfumature - anche altri prodotti di culto, come le agende Moleskine,
la Vespa, i Mac, le scarpe Tod's o Camper, le borse di Gucci o
Hermès; un tempo, gli impermeabili Burberry's e, con una
connotazione più politica, l'eskimo o i desert boots Clark's.
Il
percorso che conduce dalla mera funzionalità e utilità delle cose
alla realizzazione di oggetti che siano anche simboli di una
concezione estetica o di un’appartenenza identitaria si può
ulteriormente arricchire di significati che derivano da una visione
etica del lavoro. Essa fa riferimento all'attività fisica e
intellettuale necessaria per arrivare alla realizzazione del prodotto
e all’organizzazione di mezzi e risorse che ne consente la
realizzazione. In altri termini, il prodotto non esprime più solo
un'idea di bellezza sensoriale e di appartenenza, ma anche
un'estetica del lavoro. L'oggetto passa dall'essere considerato bello
perché ha una bella forma, all’essere bello perché creato
perseguendo un'idea di bene che si vuole condividere. Un bene che si
concretizzi in rapporti tra l'azienda e le persone che siano
rispettosi della dignità di tutti - lavoratori e imprenditori –
che siano tesi a rendere possibile ed evidente la manifestazione
della personalità di ognuno anche nell'attività che sta svolgendo.
Un oggetto che sia contemporaneamente simbolo di libertà e
creatività, ma anche di responsabilità verso gli altri e verso
l'ambiente. Un prodotto che non sia il risultato della scissione tra
persona e lavoro nata con la produzione di massa agli inizi del
secolo scorso. Il lavoro deve ritornare ad essere intimamente
collegato con i pensieri, le motivazioni e i bisogni di chi lavora e
con il territorio da cui si origina. Non significa per questo dover
abbandonare la modernità e ritornare a forme di artigianato o a
prodotti che solo in pochi si potrebbero permettere: significa invece
fare in modo che tutto il meglio che c'è nelle persone, in termini
di inventiva, capacità di trovare soluzioni, pensiero critico e
abilità fisica, possa trovare piena espressione. Non è difficile e
non è costoso se si comincia a riposizionare le relazioni umane al
centro della vita dell'impresa e si abbandona una volta per tutte il
cliché disumanizzante che utilizza la contabilità come debole, ma
spietato paravento.
Il
consumatore stesso si sentirebbe parte attiva in un processo virtuoso
e appartenente a un gruppo di persone che si identificano in una
concezione della società non separata dagli individui che la
compongono: il rapporto stesso con le cose cambierebbe. Egli
cesserebbe di essere solo “colui che consuma”, diventando invece
“colui che contribuisce e che usa”. Una volta fatto l'acquisto,
non sarebbe più solo soggetto passivo, ma parte integrante del
processo di produzione che assume la forma di un processo di
rinnovamento della società attraverso la valorizzazione del lavoro.
Si
passerebbe così forse da un'estetica che appaga i sensi a
un'estetica dei sentimenti, a cui tre secoli fa già richiamava Adam
Smith nella sua colpevolmente dimenticata “Teoria dei sentimenti
morali”. Una “dimenticanza” che ha snaturato il capitalismo
degradandolo a essere una parafrasi materialista della vita, in cui
il lavoro ha valore economico, ma non è in sé un valore.
Non
credo ci sia alternativa a un rinnovato recupero della dimensione
umana dell'economia e del valore del lavoro se non si vuole
precipitare in un mondo non dissimile da quello così ben
rappresentato nell'opera artistica di Mario Sironi. Cupi paesaggi,
fabbriche, capannoni, Non
credo ci sia alternativa a un rinnovato recupero della dimensione
umana dell'economia e del valore del lavoro se non si vuole
precipitare in un mondo non dissimile da quello così ben
rappresentato nell'opera artistica di Mario Sironi. Cupi paesaggi,
fabbriche, capannoni, ciminiere, Sironi ottant’anni fa capisce che,
attraverso la produzione industriale, il lavoro rischia di essere
chiuso in uno spazio inaccessibile e poco distinguibile, una realtà
che lo spettatore del dipinto può solo faticosamente immaginare non
senza un brivido di sconcerto. La fabbrica di Sironi può infatti
essere quella dove l’osservatore passa la maggior parte del proprio
tempo, dove svolge macchinalmente il proprio lavoro senza rendersi
conto del suo essere un lugubre luogo di sofferenza, di fatica e
cancellazione della personalità. Non si può non rimanere a disagio
davanti a un paesaggio urbano di Sironi: troppe le inevitabili
analogie nei colori, nelle strutture, nei fumi con altri luoghi di
dolore come i campi di concentramento, luoghi dove – nel crudele,
cinico e mostruosamente beffardo linguaggio dell'organizzazione
nazista - il lavoro rendeva liberi.
Non è
un azzardato paradosso recuperare la memoria di quei mattatoi e
segnalarli come pericolo sempre presente nelle infinite possibilità
della storia umana: alla spietata efficienza ed efficacia di
Auschwitz si è giunti in seguito a un processo di spersonalizzazione
dell'umanità iniziato con l'applicazione rigida del fordismo alla
produzione che ha portato il lavoro a essere solo performance e non
sapere, abilità, intelligenza, astuzia, sapienza materiale. Valore,
appunto. Non è un caso che Ford stesso fosse prima della guerra un
fanatico nazista antisemita e che Thomas J. Watson, il CEO di IBM,
abbia un rapporto controverso con Adolf Hitler.
La
cancellazione di milioni di persone è avvenuta grazie ad una precisa
pianificazione che non ha trascurato un’attenta valutazione dei
costi della soluzione finale. L’utilizzo del gas Zyklon B,
curiosamente confezionato in forma di cristalli in lattine non tanto
dissimili da quelle della zuppa Campbell, era risultato, nei calcoli
degli zelanti funzionari nazisti, l’opzione più economica tra
quelle considerate: efficienza, efficacia, minimizzazione dei costi,
riciclo accuratamente differenziato dell’oro e dei metalli degli
oggetti delle vittime, termovalorizzazione dei corpi spogliati anche
della dignità. Sei milioni di cadaveri, tutti uguali: un processo di
produzione di morte di massa perfettamente razionale.
Se si
persevera nella metafora pittorica - naturalmente senza alcuna
pretesa di critica d'arte, ma solo con l'occhio di chi dà libero
sfogo alle sue sensazioni - occorre allora, proprio come nelle opere
di Lucio Fontana, strappare la tela dell'orrore e cercare di far
emergere l'Uomo. Tutto quello che poteva essere detto e rappresentato
è stato fatto, non rimane che procedere con una lama affilata a
vedere che cosa nasconde la tela, se c'è ancora l'Uomo che vive
sotto la tecnologia, le macchine, i rapporti formali. Un taglio in
una tela come uno squarcio in un sistema malato, una vagina simbolica
da cui poter liberare l'Uomo, farlo rinascere, ridargli la luce.
Tuttavia,
se, come in Fontana, il taglio non rivela nulla, solo ombra scura, se
l'Uomo non si fa largo tra i lembi della tela, non rimane che
bruciarla, darle fuoco con una fiamma ossidrica come fa Burri,
distruggere il contesto che non consente più di vivere come persone,
che impedisce di dare prova del proprio valore, di definire la
propria identità e sperare che solo dalla catarsi, dall'olocausto
del sistema possa nascere qualcosa di nuovo, proprio come un
incendio, distruggendo i boschi, li rinnova e li rende perenni
Un modo
forse per superare il fosco presagio dell’apocalisse finale ancora
sopravvive, e consiste nel definire e identificare con chiarezza le
strutture economiche, politiche e sociali del nostro presente e
cominciare a smontarle pezzo dopo pezzo, come in un lego, per poi
ricostruirle violando ogni regola e convenzione. Tirar fuori la
creatività necessaria per non rimanere prigionieri della gabbia che
ci siamo costruiti, sapendo ridere del tempo che abbiamo sprecato a
occuparci di concetti sbilenchi come efficienza, efficacia, presunta
meritocrazia, selezione, programmazione e controllo. Ridere del
fallimento a cui hanno portato la società e l'economia e sfidare
l’assurdo come nei film di Buñuel, cominciando invece a
contaminare i pensieri superando le frontiere esistenti fra le
discipline, le arti e le conoscenze. E’ imperativo andare oltre
quella separazione artificiosa che è stata tracciata tra umanesimo e
scienza. abbattere la visione finalistica della tecnologia
riconducendola invece a essere mero strumento tecnico, opponendosi
con forza alle pretese aberranti di una visione che concepisce un
logos immanente nella tèchne, una “ragione tecnologica” che non
ha nulla di umano e molto di diabolico, di separato letteralmente
dall’Uomo. Non è un caso che la formazione tecnica, per lunga
tradizione, sia sempre stata il fiore all’occhiello dei regimi
totalitari, il nutrimento ideologico dell’homo
sovieticus e
di quello sinensis
prima
e durante l'attuale abbuffata capitalistica.
Destrutturare
per ricostruire. Perché allora non cominciare - proprio come in un
dipinto surrealista - deformando il tempo, sciogliendolo, liberandolo
dallo strumento di misura e dall'idea di scadenza? Ricominciare
pertanto a vivere il tempo senza volerlo dominare, fermare o
accelerare.
Fermarci
a osservare la natura, percepire i ritmi dei suoi colori, delle sue
forme e dei suoi odori ci può essere sorprendentemente di grande
aiuto per recuperare innanzitutto quella nostra dimensione umana che
noi per primi abbiamo lasciato seppellire dalle macerie del nostro
lavoro.