martedì 9 luglio 2013

L'estetica del valore lavoro

L’arte figurativa, la letteratura e la musica hanno, tra i numerosi pregi, quello di stimolare il pensiero, dare suggerimenti e creare suggestioni che possono spingere a qualche insolita riflessione sul mondo intorno a noi. Mentre gettano un lampo di luce sulla comprensione dei fenomeni, proiettano anche un’ombra di dubbio là dove tutto sembra limpidamente certo.
Nel precedente post avevo cercato di mettere in relazione la pop-art di Andy Warhol con un oggetto di culto come l'iPod, rilevando come nella prima siano stati trasfigurati in forma artistica non solo i prodotti di massa come la zuppa Campbell, ma anche il processo stesso di produzione attraverso la continua riproposizione in vari colori dello stesso manufatto. Il genio di Warhol e la sua capacità di interpretare e influenzare la modernità sono andati tuttavia oltre: è sintomatico infatti che, tra le merci in serie, egli abbia considerato anche i personaggi pubblici, gli attori, i politici, le icone che ai suoi tempi riempivano le pagine di Life e Time o gli schermi televisivi. Loro stessi erano e sono percepiti e rappresentati come oggetti, in qualche modo, resi accessibili al pubblico attraverso i media e continuamente riproducibili in varie versioni. Tuttavia Warhol non si è fermato alla rappresentazione dei prodotti e del processo, ma, attraverso la sua stessa persona, il suo essere artista, ha saputo divenire l'incarnazione della fabbrica: proprio grazie alla reiterazione del medesimo atto creativo, che diventa la trasfigurazione del concetto di riproduzione all'infinito, ha letteralmente “lanciato” sul mercato dell’arte un'identica gamma di merci differenti: la zuppa Campbell, Mao, la Taylor, la Monroe, ecc.

Nel caso dell'iPod, invece, non è il prodotto di massa a diventare arte, ma – come ho scritto – è l'estetica che riveste di sé il bene di largo consumo: la tela è rappresentata dall'alluminio, dalla plastica, dal silicio dell'iPod su cui viene depositata un'idea di bellezza delle forme e dei colori; la materia diviene simbolo di una concezione estetica e di appartenenza a un gruppo di persone che la comprendono e la condividono.
Si può allora immaginare il lettore musicale della Apple come il risultato di un tipo di marketing che segmenta l'acquirente in base ai gusti e allo stile di vita cercando di definire anche una nuova identità: il suo prezzo – significativamente più alto di quello dei concorrenti - comprende così non solo le sue prestazioni, ma soprattutto l'idea che ne sta alla base. Diviene oggetto imitato, copiato e nessuna imitazione è in grado di veicolare gli aspetti immateriali che rendono l'iPod diverso. Il fenomeno riguarda – con diverse sfumature - anche altri prodotti di culto, come le agende Moleskine, la Vespa, i Mac, le scarpe Tod's o Camper, le borse di Gucci o Hermès; un tempo, gli impermeabili Burberry's e, con una connotazione più politica, l'eskimo o i desert boots Clark's.

Il percorso che conduce dalla mera funzionalità e utilità delle cose alla realizzazione di oggetti che siano anche simboli di una concezione estetica o di un’appartenenza identitaria si può ulteriormente arricchire di significati che derivano da una visione etica del lavoro. Essa fa riferimento all'attività fisica e intellettuale necessaria per arrivare alla realizzazione del prodotto e all’organizzazione di mezzi e risorse che ne consente la realizzazione. In altri termini, il prodotto non esprime più solo un'idea di bellezza sensoriale e di appartenenza, ma anche un'estetica del lavoro. L'oggetto passa dall'essere considerato bello perché ha una bella forma, all’essere bello perché creato perseguendo un'idea di bene che si vuole condividere. Un bene che si concretizzi in rapporti tra l'azienda e le persone che siano rispettosi della dignità di tutti - lavoratori e imprenditori – che siano tesi a rendere possibile ed evidente la manifestazione della personalità di ognuno anche nell'attività che sta svolgendo. Un oggetto che sia contemporaneamente simbolo di libertà e creatività, ma anche di responsabilità verso gli altri e verso l'ambiente. Un prodotto che non sia il risultato della scissione tra persona e lavoro nata con la produzione di massa agli inizi del secolo scorso. Il lavoro deve ritornare ad essere intimamente collegato con i pensieri, le motivazioni e i bisogni di chi lavora e con il territorio da cui si origina. Non significa per questo dover abbandonare la modernità e ritornare a forme di artigianato o a prodotti che solo in pochi si potrebbero permettere: significa invece fare in modo che tutto il meglio che c'è nelle persone, in termini di inventiva, capacità di trovare soluzioni, pensiero critico e abilità fisica, possa trovare piena espressione. Non è difficile e non è costoso se si comincia a riposizionare le relazioni umane al centro della vita dell'impresa e si abbandona una volta per tutte il cliché disumanizzante che utilizza la contabilità come debole, ma spietato paravento.
Il consumatore stesso si sentirebbe parte attiva in un processo virtuoso e appartenente a un gruppo di persone che si identificano in una concezione della società non separata dagli individui che la compongono: il rapporto stesso con le cose cambierebbe. Egli cesserebbe di essere solo “colui che consuma”, diventando invece “colui che contribuisce e che usa”. Una volta fatto l'acquisto, non sarebbe più solo soggetto passivo, ma parte integrante del processo di produzione che assume la forma di un processo di rinnovamento della società attraverso la valorizzazione del lavoro.
Si passerebbe così forse da un'estetica che appaga i sensi a un'estetica dei sentimenti, a cui tre secoli fa già richiamava Adam Smith nella sua colpevolmente dimenticata “Teoria dei sentimenti morali”. Una “dimenticanza” che ha snaturato il capitalismo degradandolo a essere una parafrasi materialista della vita, in cui il lavoro ha valore economico, ma non è in sé un valore.


Non credo ci sia alternativa a un rinnovato recupero della dimensione umana dell'economia e del valore del lavoro se non si vuole precipitare in un mondo non dissimile da quello così ben rappresentato nell'opera artistica di Mario Sironi. Cupi paesaggi, fabbriche, capannoni, Non credo ci sia alternativa a un rinnovato recupero della dimensione umana dell'economia e del valore del lavoro se non si vuole precipitare in un mondo non dissimile da quello così ben rappresentato nell'opera artistica di Mario Sironi. Cupi paesaggi, fabbriche, capannoni, ciminiere, Sironi ottant’anni fa capisce che, attraverso la produzione industriale, il lavoro rischia di essere chiuso in uno spazio inaccessibile e poco distinguibile, una realtà che lo spettatore del dipinto può solo faticosamente immaginare non senza un brivido di sconcerto. La fabbrica di Sironi può infatti essere quella dove l’osservatore passa la maggior parte del proprio tempo, dove svolge macchinalmente il proprio lavoro senza rendersi conto del suo essere un lugubre luogo di sofferenza, di fatica e cancellazione della personalità. Non si può non rimanere a disagio davanti a un paesaggio urbano di Sironi: troppe le inevitabili analogie nei colori, nelle strutture, nei fumi con altri luoghi di dolore come i campi di concentramento, luoghi dove – nel crudele, cinico e mostruosamente beffardo linguaggio dell'organizzazione nazista - il lavoro rendeva liberi.
Non è un azzardato paradosso recuperare la memoria di quei mattatoi e segnalarli come pericolo sempre presente nelle infinite possibilità della storia umana: alla spietata efficienza ed efficacia di Auschwitz si è giunti in seguito a un processo di spersonalizzazione dell'umanità iniziato con l'applicazione rigida del fordismo alla produzione che ha portato il lavoro a essere solo performance e non sapere, abilità, intelligenza, astuzia, sapienza materiale. Valore, appunto. Non è un caso che Ford stesso fosse prima della guerra un fanatico nazista antisemita e che Thomas J. Watson, il CEO di IBM, abbia un rapporto controverso con Adolf Hitler.
La cancellazione di milioni di persone è avvenuta grazie ad una precisa pianificazione che non ha trascurato un’attenta valutazione dei costi della soluzione finale. L’utilizzo del gas Zyklon B, curiosamente confezionato in forma di cristalli in lattine non tanto dissimili da quelle della zuppa Campbell, era risultato, nei calcoli degli zelanti funzionari nazisti, l’opzione più economica tra quelle considerate: efficienza, efficacia, minimizzazione dei costi, riciclo accuratamente differenziato dell’oro e dei metalli degli oggetti delle vittime, termovalorizzazione dei corpi spogliati anche della dignità. Sei milioni di cadaveri, tutti uguali: un processo di produzione di morte di massa perfettamente razionale.

Se si persevera nella metafora pittorica - naturalmente senza alcuna pretesa di critica d'arte, ma solo con l'occhio di chi dà libero sfogo alle sue sensazioni - occorre allora, proprio come nelle opere di Lucio Fontana, strappare la tela dell'orrore e cercare di far emergere l'Uomo. Tutto quello che poteva essere detto e rappresentato è stato fatto, non rimane che procedere con una lama affilata a vedere che cosa nasconde la tela, se c'è ancora l'Uomo che vive sotto la tecnologia, le macchine, i rapporti formali. Un taglio in una tela come uno squarcio in un sistema malato, una vagina simbolica da cui poter liberare l'Uomo, farlo rinascere, ridargli la luce.

Tuttavia, se, come in Fontana, il taglio non rivela nulla, solo ombra scura, se l'Uomo non si fa largo tra i lembi della tela, non rimane che bruciarla, darle fuoco con una fiamma ossidrica come fa Burri, distruggere il contesto che non consente più di vivere come persone, che impedisce di dare prova del proprio valore, di definire la propria identità e sperare che solo dalla catarsi, dall'olocausto del sistema possa nascere qualcosa di nuovo, proprio come un incendio, distruggendo i boschi, li rinnova e li rende perenni
Un modo forse per superare il fosco presagio dell’apocalisse finale ancora sopravvive, e consiste nel definire e identificare con chiarezza le strutture economiche, politiche e sociali del nostro presente e cominciare a smontarle pezzo dopo pezzo, come in un lego, per poi ricostruirle violando ogni regola e convenzione. Tirar fuori la creatività necessaria per non rimanere prigionieri della gabbia che ci siamo costruiti, sapendo ridere del tempo che abbiamo sprecato a occuparci di concetti sbilenchi come efficienza, efficacia, presunta meritocrazia, selezione, programmazione e controllo. Ridere del fallimento a cui hanno portato la società e l'economia e sfidare l’assurdo come nei film di Buñuel, cominciando invece a contaminare i pensieri superando le frontiere esistenti fra le discipline, le arti e le conoscenze. E’ imperativo andare oltre quella separazione artificiosa che è stata tracciata tra umanesimo e scienza. abbattere la visione finalistica della tecnologia riconducendola invece a essere mero strumento tecnico, opponendosi con forza alle pretese aberranti di una visione che concepisce un logos immanente nella tèchne, una “ragione tecnologica” che non ha nulla di umano e molto di diabolico, di separato letteralmente dall’Uomo. Non è un caso che la formazione tecnica, per lunga tradizione, sia sempre stata il fiore all’occhiello dei regimi totalitari, il nutrimento ideologico dell’homo sovieticus e di quello sinensis prima e durante l'attuale abbuffata capitalistica.

Destrutturare per ricostruire. Perché allora non cominciare - proprio come in un dipinto surrealista - deformando il tempo, sciogliendolo, liberandolo dallo strumento di misura e dall'idea di scadenza? Ricominciare pertanto a vivere il tempo senza volerlo dominare, fermare o accelerare.
Fermarci a osservare la natura, percepire i ritmi dei suoi colori, delle sue forme e dei suoi odori ci può essere sorprendentemente di grande aiuto per recuperare innanzitutto quella nostra dimensione umana che noi per primi abbiamo lasciato seppellire dalle macerie del nostro lavoro.


sabato 6 luglio 2013

L'iPod di Andy Warhol

Un'immagine di uno dei tanti barattoli di zuppa Campbell, resa icona da Andy Warhol, mi ha suggerito un immediato parallelo con uno degli oggetti di culto degli ultimi anni, l'iPod.
Non c'è bisogno di essere esperti d'arte per vedere come Warhol abbia voluto trasfigurare, nelle sue riproduzioni della zuppa in lattina, un oggetto di largo consumo totalmente standardizzato. La zuppa confezionata era il simbolo di un'economia e di una società in crescita, che non aveva tempo da perdere a cucinare, che doveva avere la certezza di trovare in qualsiasi lattina sempre lo stesso prodotto, con la stessa qualità, la stessa consistenza, l'odore, il colore e il sapore di sempre. Nessun imprevisto avrebbe potuto sorprendere il consumatore intento con l'apriscatole a sollevare il lembo di tagliente metallo che richiudeva il familiare denso alimento. 
La zuppa confezionata era il simbolo del nuovo focolare domestico, non più custodito dalle amorevoli cure di una donna di casa, ma i cui perimetri erano definiti da un vibrante refrigeratore, da una rumorosa lavapiatti e da un mobile di pregiato legno scuro a protezione di uno schermo fluorescente. Lente attraverso la quale le immagini del mondo avevano accesso all'immaginazione delle famiglie americane, stimolandola, modificandola e guidandola verso l'acquisto di tanti altri baluardi del progresso. La zuppa Campbell si era trasformata nell'americano medio.
Warhol la ritrae più volte, così come avrebbe fatto con molti personaggi divenuti miti popolari; la riproduce in serie proprio come in serie viene prodotta nella realtà; ne rappresenta tutta la gamma: quella al pomodoro, quella al pollo, ai funghi, e smetterà solo quando avrà raffigurato tutte le versioni presenti sugli scaffali degli store. Nessuna variante della zuppa sarebbe sfuggita alla trasfigurazione di Warhol: far diventare arte, oggetto di culto, un cibo popolare e cheap.
Warhol tuttavia è così acuto, ha così ben capito il suo tempo, che non si limita a rappresentare il prodotto, ma l'intero processo che porta alla sua produzione, replicando le immagini infinite volte, cambiando i colori quasi a voler fissare sulla tela o sulla carta il risultato del processo di produzione di massa. Grazie a Warhol la zuppa Campbell diventa icona, immagine simbolo, diventa arte contemporanea.
Trovo che questa evoluzione da prodotto di massa a oggetto estetico abbia la sua corrispondenza antisimmetrica nell'iPod. In questo caso il cammino è inverso: si parte da un'idea di bellezza, di forma, di design innovativo, di piacere estetico visivo e tattile e lo si materializza in un manufatto di alluminio, plastica, vetro e silicio che diventa il supporto dell'idea di bellezza, acquisisce la funzione che la tela e la carta hanno in Warhol.
Il prodotto realizzato in serie, in decine di colori e diversi formati, diventa veicolo esso stesso di un ideale estetico e del piacere. Non è più un prodotto di massa a diventare bello, ma è il bello che va a dimorare su un prodotto di massa rendendolo simbolo di un modo di vivere: il dinamismo, il gusto raffinato, la modernità, ma anche l'isolamento dagli altri attraverso l'ascolto in cuffia e tuttavia il riconoscimento di coloro che condividono le stesse scelte, di coloro che optano per un “non luogo” privato, fatto di musica, e si sottraggono ai non luoghi del supermercato, degli aeroporti, dell'ufficio, della via di casa. Li accompagna la sensazione di appartenenza a una nuova classe, tecnologica, elitaria, “creativa”..
E’ nella natura delle cose e delle infinite metamorfosi dell’arte e dei suoi significati che la prima serie del lettore musicale della Apple sia stata esposta al MOMA di New York poco lontano proprio dalla Warhol’s Collection.
Se vivesse ancora Warhol non ritrarrebbe l'iPod su una tela come fece con la zuppa Campbell e con decine di altre icone: l'iPod non ha bisogno di diventare arte, è già materializzazione estetica. Warhol invece dipingerebbe gli iPod, proprio come fossero essi stessi la tela, li vestirebbe di tante piccole zuppe Campbell miniaturizzate o, meno anacronisticamente, di tanti altri piccoli iPod, in una meta-lettura estetica che prosegua all'infinito, mentre l'arte, facendosi materia fisica, si riprodurrebbe, rincorrerebbe se stessa e rischierebbe di snaturarsi, di diventare maniera o, addirittura, prodotto di massa, finendo così per essere non dissimile da un latta di zuppa conservata.