mercoledì 28 settembre 2016

La Pietà Rondanini: cinquecento anni di arte contemporanea.

La Pietà Rondanini - dal nome della famiglia venuta in suo possesso anni dopo la morte di Michelangelo - è uno straordinario capolavoro di arte contemporanea, realizzato però cinquecento anni prima degli albori dell'arte contemporanea. Un'opera che sarebbe perfettamente coerente e a proprio agio con le sue nipotine della Collezione Guggenheim, della Fondazione Maeght o del museo del Novecento a Milano.
Da profano e semplice curioso, sono sempre stato nel contempo attratto e respinto dalla sua indecifrabilità, incompiutezza e - ai miei occhi - incomprensibilità. Non capivo perché Michelangelo, che già aveva fatto sessant'anni prima una pietà bellissima in San Pietro, avesse dovuto cimentarsi in un simile "sgorbio". Come molti, ho sempre dato per scontata la sua natura di opera incompleta, iniziata, interrotta e mai finita. Una Pietà anomala, inquietante, che per molto tempo mi evocava qualcosa di simile al salvataggio di un naufrago, parendomi la Madonna più somigliante a un pescatore misericordioso e Gesù a qualcuno che veniva raccolto esanime dall'acqua.  La pietà, appunto, del soccorritore, del salvatore che salva il Salvatore. Oppure, con mente paganeggiante, vedevo in essa il pensiero di Nausicaa davanti a Ulisse, desiderosa nel corpo di prendersene cura o quello di Odisseo-Nessuno davanti alla figlia del re dei Feaci, desideroso di abbandonarsi, sfinito, alla sua accoglienza e benevolenza. Una macedonia di sensazioni e reminiscenze scolastiche che hanno contribuito al non poter essere indifferente rispetto a una specie di mistero marmoreo, di racconto ermetico scritto in punta di scalpello.
Solo molto recentemente tuttavia sono stato folgorato dalla sua straordinaria importanza e credo di averne colto almeno alcuni dei molti significati.

Innanzitutto non è un'opera incompiuta - come ha anche rilevato Henry Moore in una sua originale analisi tecnica - è piuttosto un'opera voluta nella sua indeterminatezza. La scultura era già stata terminata dall'autore ed era completamente diversa da come ci appare ora: era un sublime esempio di arte rinascimentale che richiamava l'arte classica, ma con un tema a carattere religioso. Il Cristo deposto dalla croce e vegliato da sua madre piena di grazia e di pietà. Poi Michelangelo ha deciso di doverla cambiare, di distruggerla, di farla diventare altro. Di quella prima versione rimangono solo le gambe, così realistiche, eleganti, che sembrano nell'inerzia di sciogliersi dalla postura in cui erano costrette sulla croce. Il resto viene deturpato, modificato, come se Michelangelo fosse in cerca della vera anima di quell'opera: il lavoro di rimozione dell'inutile non trova mai compimento; l'immagine di madre e figlio è non umana, umbratile, stilizzata, quasi mera apparenza, un'epifania sempre più immateriale a mano a mano che dalle gambe ci si muove verso i volti. Michelangelo sembra voler così rappresentare il mistero irrappresentabile, il dio fatto uomo e sua madre, madre di dio. C'è una forza innaturale in quei tratti appena accennati, cancellati: presenze che sembrano lentamente svanire, perdersi nella materia o, al contrario, emergere dallo spazio, prendere forma sotto gli occhi dell'osservatore, inevitabilmente confuso, attonito. Il cristo uomo è morto e cambia natura, sostanza, svanisce nel marmo e da lì risorge. Questo tentativo di raffigurare il non raffigurabile è tipico dell'arte contemporanea, dove l'opera si definisce nell'immaginazione di chi la osserva. Basti pensare alle sculture di Boccioni che interpretano il dinamismo stando ferme e riescono a fare vedere il movimento dell'aria e della materia oppure al più volte citato Giacometti e all'indefinitezza delle sue forme e delle sue superfici, tese verso una perfezione che non possono mai raggiungere.


Il dato storico artistico dice che la seconda versione della Pietà è letteralmente e materialmente derivata dalla prima, dal blocco di marmo che ha liberato da sé la Pietà precedente. Michelangelo ha estratto la sua seconda opera da quella preesistente, sembra, scambiando le parti tra Gesù e Maria: ricavando la testa del secondo Gesù dal petto di Maria e la seconda Maria dal corpo di Cristo. In questa rappresentazione Gesù e Maria sono l'una parte dell'altro, si generano reciprocamente, non si limitano a condividere la materia di cui sono fatti. In questo modo Michelangelo riesce a esprimere almeno due concetti assai rilevanti anche sotto il profilo teologico: l'opera è una metamorfosi di un lavoro preesistente così come la morte di Cristo è una sorta di metamorfosi della sua natura: muore il Gesù uomo, si smaterializza e torna al padre. Il secondo concetto teologico - che io trovo straordinario - è l'unicità della natura e della materia di Cristo e della Madonna. Non più madre e figlio, ma un unico corpo, un'unica dimensione, un'unica natura in due incarnazioni. Un concetto forse eretico, ma di straordinaria forza: non solo dio-padre, ma dio-madre in un'unica materia col figlio. Ricordo che l'espressione Dio-Madre fu usata da Giovanni Paolo I nel suo brevissimo pontificato. Mi piace pensare - è una mia forzatura da ateo - che sia Michelangelo Buonarroti sia Albino Luciani potessero immaginare una trinità composta da Padre, Figlio e Madre. Del resto non sarebbe così azzardato con-fondere, fondere insieme, Maria e lo Spirito Santo persino in un ambito cattolico tradizionale.

Tuttavia Michelangelo non smette di riservare sorprese: basta osservare la Pietà secondo l'asse verticale. La rappresentazione marmorea del corpo morto di Gesù deposto dalla croce non sembra affatto raffigurare un morto, ma una sofferenza, uno svuotamento di energie, un'agonia, un involucro esterno abbandonato o, forse, qualcuno che invece si sta rialzando. Affinando l'attenzione tuttavia, il Cristo che esce dal petto di Maria (dal costato, quasi a voler rovesciare così il rapporto tra Adamo ed Eva) sembra significare una nuova nascita dopo la morte, un parto in una dimensione altra da quella umana. Nella Pietà la morte diventa metamorfosi e poi rinascita.
In molti ritengono che la statua fosse destinata a essere il monumento funerario della tomba di Michelangelo, ormai molto anziano. La morte sarebbe la sua morte, di uomo che invoca la pietà davanti alla fine. Può darsi, ma mi sembrerebbe un modo riduttivo di interpretare un'opera sconcertante. Se il suo significato non dovesse essere anche teologico, ma si limitasse alla fine dell'esistenza terrena dell'autore, anche in questo caso non si tratterebbe, secondo me, di una semplice invocazione della Misericordia in limine mortis, ma una concezione della morte come metamorfosi dell'uomo che viene accolto perché rinasca, abbandoni questa realtà corporea per raggiungere uno stato spirituale, epifanico, inafferrabile con l'intelletto. Così almeno mi piace pensarla, esoterica nel suo non essere afferrabile, spirituale in modo intimo, profondo, al di fuori da canoni e liturgie ecclesiastiche, misterica nel potersi offrire a tanti livelli di interpretazione, contemporanea nel rappresentare anche i gesti, i colpi, che l'hanno fatta emergere da un capolavoro precedente cancellato e rimodellato per darle vita. Non escluderei neppure, in virtù della personalità di Michelangelo, un intento di tipo politico: il manifesto scultoreo di un bisogno di rinnovamento radicale della chiesa, l'urgenza di abbandonare i fasti rinascimentali rappresentati dall'opera precedente e ritrovare la Via dello spirito, del dio fatto uomo, della morte e resurrezione, nella sua inafferrabile essenza. Non va sottovalutato infatti che il secolo della Pietà Rondanini è quello della Riforma e delle sue istanze.

La Pietà Rondanini, conservata al Castello Sforzesco, a Milano è l'ultimo lavoro di Michelangelo, il suo epitaffio artistico. Mentre sessant'anni prima la Pietà di San Pietro fu il suo primo capolavoro di giovane scultore. Due opere che aprono e chiudono il ciclo di una vita eccezionale e che la eternano tra noi mortali.

lunedì 12 settembre 2016

L'opera d'arte come strumento di formazione


(Viene qui di seguito riportato il testo del mio intervento a "Pitturazione: quando la formazione incontra l'arte", con l'esperto di processi formativi Cristiana Clementi e la pittrice Valentina Canale, Cassinetta di Lugagnano, Milano, 10 settembre 2016).


"L'arte è solo un mezzo per vedere", così si esprimeva lo scultore grigionese della indeterminatezza dell'uomo Alberto Giacometti. Sorprende una frase così netta, definita, quasi sminuente, da parte di un autore le cui opere sono invece la testimonianza di una incapacità di esprimersi in maniera definitiva, di raggiungere un risultato soddisfacente che non sia invece in continuo movimento, evoluzione, superamento di sé. "L'arte è solo un mezzo per vedere": non ci si può non chiedere davanti a un'affermazione del genere chi sia il soggetto vedente e quale l'oggetto visto. Così come non si può fare a meno di pensare all'arte come strumento, mezzo di intermediazione della conoscenza, molto lontana quindi dall'idea di ars gratia artis - l'arte per l'arte - con cui ci hanno riempito la testa a scuola: il culto dell'arte, una religione estetica neopagana, una categoria dello spirito.

L'appunto di Giacometti invece ci trasmette l'idea affascinante di un'arte da imparare a capire, a usare, per vedere la realtà. L'oggetto dell'arte, il centro del suo campo visivo, è la realtà. La realtà materiale, concreta, fisica, ma anche la realtà delle idee, concetti, paure, desideri, pulsioni, principi. Un oggetto quindi fisico, ma anche metafisico, che va quindi al di là della natura e ci porta nelle dimensioni di intelletto, pensiero, emozioni, etica, sogno. L'arte diventa così un mezzo di trasporto che ci conduce nelle più diverse direzioni trasfigurandole, rappresentandole quindi in modo simbolico, deformato, destrutturato e poi ricostruito, attraverso associazioni, relazioni, simultaneità, contrasti. L'opera è una narrazione visiva, tattile, uditiva - verbalizzata o no - della realtà; supera se stessa, la propria materialità, le forme, le tecniche che hanno condotto alla sua creazione per aprire squarci su mondi non attesi, proprio come in una delle Attese di Lucio Fontana. L'arte è un tramite costante tra la realtà esterna, l'interiorità dell'artista e quella del suo consumatore. Uso di proposito il termine consumatore perché l'opera va consumata per consentirle di esprimere tutto il suo contenuto: non basta osservarla; va vissuta più volte, gustata, esplorata.

Se l'oggetto dell'arte come "mezzo per vedere" è la realtà esterna, interna e immaginata, i soggetti sono invece almeno due: l'artista e il consumatore. L'artista "vede" attraverso la propria arte, concretizza la propria realtà interiore su una tela, si coglie attraverso lo spazio bidimensionale su cui mette le mani: come Narciso nello specchio d'acqua, con la differenza che l'immagine riflessa è quella che l'autore ha voluto o cercato di creare.
Il consumatore è in una posizione privilegiata perché non solo può vedere che cosa l'artista vuole esprimere e come, ma ha modo anche di dialogare con se stesso, di prendere parte a una rappresentazione che va oltre le intenzioni e le capacità dell'artista. La relazione tra consumatore e opera ad un certo punto diventa totalmente autonoma e altra rispetto a quella tra l'artista e la sua opera. L'opera stessa, quindi, prende una vita autonoma rispetto a quella che il suo creatore ha pensato di darle.

Se l'arte è in grado di dire molte più cose di quelle che il suo autore ha inteso, se parla direttamente all'osservatore e si offre a lui fino a farlo diventare consumatore, se tende a farsi possedere, diventa inevitabile cogliere la dimensione trasformatrice dell'opera. L'opera d'arte induce cambiamenti, trasformazioni, trans-formazioni, cioè modella il consumatore a diventare altro da sé, a subire una piccola - o grande - metamorfosi; l'arte pertanto diventa strumento di formazione, capace di plasmare l'osservatore facendolo diventare una tela su cui stendere nuovi colori o il blocco di marmo da cui liberare - rimuovendo l'inutile - la parte di sé in esso nascosta. Formazione significa partecipare al processo di acquisizione di una forma, facilitandolo, guidandolo, indirizzandolo.
Il processo di formazione avviene all'interno dell'osservatore: l'opera, per assumere un significato, per scatenare la sua forza evocativa e descrittiva ha bisogno di uno spettatore che abbia un ruolo attivo, che si lasci penetrare, non opponendo resistenze. È nello spettatore che non teme l'ignoto, l'insolito, l'incomprensibile, che l'arte può liberare le sue potenzialità generatrici di idee, riflessioni, decisioni e cambiamenti.
Perché avvenga il passaggio da ruolo passivo ad attivo, da spettatore a consumatore, è innanzitutto necessario che ci sia un contatto diretto con l'opera non mediato da fotografie, film o riproduzioni. Questa relazione in formazione deve essere guidata da un atteggiamento curioso da parte del consumatore; l'arte - diceva Berger - deve avviare un processo di interrogazione, una ricerca - potrebbe aggiungere - a più livelli in sovrapposizione: che cosa esprime l'opera, quali sono le intenzioni dell'artista, che reazioni suscita nello spettatore. Per poter dare una risposta a queste domande, lo spettatore/consumatore deve allenarsi con l'immaginazione e pensare di essere l'autore o un soggetto dell'opera che ha davanti a sé, un colore o la tela in pittura, uno strumento musicale in una sinfonia, un blocco di marmo nella scultura. Sentire le mani dell'artista che lo plasmano, lo suonano o lo distribuiscono sulla tela; cercare di immaginarne le sensazioni tattili, gli odori, le consistenze della materia, le temperature, i gesti preparatori o quelli creatori, il tempo necessario, le attese prima di mettere mano a questo o quel particolare. Nel fare tutto questo occorre porre la propria attenzione alle sensazioni, alle emozioni positive e negative, alle forze che attraggono e quelle che respingono e persino al rimanere indifferenti davanti a un'opera. Come mai siamo apparentemente sordi a quel che l'artista voleva dirci? Perché la sua opera sembra ignorarci, non essere interessata a noi, sembra non voler trasmetterci nulla?

Una successiva riflessione deve portare a pensare in quali altre circostanze della vita lo spettatore fa la stessa esperienza di pienezza o di vuoto, presenza o mancanza di significato e quali elementi possano essere in comune con la relazione che egli sta stabilendo con l'opera: perché l'opera lo cattura, lo fa suo? Perché invece sembra rifiutargli una qualsiasi possibilità di comunicazione? Quando nella vita quotidiana si può accorgere di attraversare le stesse sensazioni?
Come in tutte le cose, per far parlare un'opera ed essere in grado di ascoltarla occorre silenzio, concentrazione, sensibilità e attenzione e allenamento. L'opera deve avere il tempo di distrarci, condurci via dalla banalità e chiusura dei soliti pensieri e farci volare attraverso territori inesplorati e spesso scomodi. Non serve una competenza di natura artistica o filosofica: serve invece disponibilità ad ascoltare se stessi attraverso le opere.

Valentina Canale - Rami
La fiducia nel fatto che l'arte sia un "mezzo per vedere" e quindi un efficace strumento di formazione, nasce dalla non casualità dell'opera, dall'intenzionalità dell'artista. Egli esprime se stesso, si racconta nel modo che ritiene più opportuno. Lo spettatore va in cerca a sua volta di questo dialogo silenzioso, ma non vacuo, ricco invece di significati e di stimoli. È quindi presente anche una tensione dello spettatore verso l'artista e la sua opera, un voler capire guidato dalla curiosità, la sete di conoscere. E quando la conoscenza si sviluppa scatta la meraviglia, lo stupore, la capacità di farsi rapire dal nuovo per poterlo poi guidare. Quel che i filosofi greci chiamavano thaumazein.