lunedì 8 agosto 2011

Parla come mangi: il gusto delle parole

L'italiano senza ortografia è come le note senza le pause: non ne nasce musica. Talvolta penso che avesse ragione quel professore in pensione che in un racconto di Sciascia - magistralmente interpretato al cinema da Volontè - diceva a un tronfio Procuratore della Repubblica che "l'italiano non è l'Italiano, l'italiano è Ragionare".

G. Volontè, "L'italiano è Ragionare" (L. Sciascia)

Ho amici tuttavia che l'italiano lo masticano poco, che non hanno avuto una significativa istruzione formale, ma che ragionano benissimo, con sottigliezza, originalità e acume. Forse l'avvertimento di Sciascia è per coloro che pomposamente l'italiano credono di conoscerlo. Una cosa è infatti fare errori formali quando si hanno gli strumenti intellettuali per non farli, un'altra è farli per mancanza di istruzione. Nel primo caso avrò a che fare con la sciatteria del somaro, il pressappochismo dell'arrogante; nel secondo ho a che fare con qualcuno da cui magari posso comunque imparare qualcosa.
La mia nonna (classe 1896) aveva la quinta elementare, ma aveva il cervello fino e le piaceva leggere e ascoltare la radio. Seguiva il canale retoromancio, perché le ricordava il suono del dialetto dei suoi nonni, facendomi capire che anche la pronuncia dei nostri dialetti ambrosiani è molto cambiata nei decenni.
Quando cercava di parlare in italiano (lo faceva di rado e solo per rispetto di un interlocutore a cui si sentiva inferiore per istruzione) faceva un po' ridere, spesso si prendeva in giro, ma non diceva banalità: parlava di guerra, di fame, della Patria (per lei rigorosamente con la lettera maiuscola) a cui aveva dato oro e pentole di rame, della bellezza del lavoro nei campi e della fatica e amava parlare della morte, del dopo, del "e se sono tutte balle e non c'è niente?". E' morta a 95 anni. Ho passato insieme a lei molte estati fino alla fine: mi ha dato molto più dei libri che ho studiato e degli insegnanti che ho avuto: di Maestri purtroppo non ho mai avuto la fortuna di conoscerne, né sul lavoro né fuori.

Anch'io però ho la sindrome della maestrina con la penna rossa e non sopporto il "qual'è" scritto con l'apostrofo - con buona pace di Tobino e di tutti gli altri toscani - per non parlare di quando accompagna l'articolo indeterminativo maschile o di quel maledetto "pò" che non è neanche un fiume. Non sopporto neppure che si cominci una frase - come ho fatto quattro righe fa - con un "anche", una congiunzione, un avverbio. Pretendo la maiuscola per i nomi propri, per quelli dei miei amici, dei semplici conoscenti e pure dei miei nemici. Che senso avrebbe altrimenti insistere tanto sull'importanza delle persone, del “capitale umano”, se poi i nomi delle stesse li scriviamo in minuscolo? Lascio libertà di scelta per papa e dio che io preferisco scrivere minuscoli per una mia personale forma di integralismo religioso. Perché (con l'accento giusto) la forma è sostanza anche senza scomodare Norbert Elias e tutti quei sociologi lì. E quando la forma non è sostanza (sì, inizio con una bella "e", perché sto dando enfasi), non è neppure forma, ma solo una vuota caricatura della stessa. E' far roteare il bicchiere per far credere d'essere un intenditore di vino.

Tuttavia la lingua vive attraverso le persone che la usano, non si riduce né alla cristallizzazione lessicale né alla sua etimologia: l'”epperò” di Carlo Bo per dire “e perciò” era un vezzo ottocentesco e forse anche una carloboiata. Il significato etimologico inoltre è solo una radice, non comprende tutta la pianta e tutti i frutti che essa può dare. Non ho mai amato D'Annunzio, ma la sua capacità di inventare parole era straordinaria. E così per la forgia letteraria del Gadda e per... il Villaggio. Fantozzi è un capolavoro lessicale: lo “spigato siberiano”, la “mutanda ascellare”, il “megadirettoregalattico”, l'uso originale delle iperboli, la “molta lagunarità” di Venezia, i falsi congiuntivi che tra “venghi”, “facci” e “vadi” sostituiscono alla natura dubbiosa di quel modo, la certezza della volontà di un'ascesa sociale, l'accesso riservato al modo esclusivo di riconoscimento delle classi colte.


Pignoleria e pedanteria fanno molto piacere quando appartengono al neurochirurgo che ci opera al cervello o al pilota dell'aereo sul quale stiamo viaggiando. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli e confonde i contesti. E' però la mancanza di coerenza tra quel che si dice, come lo si dice e quel che si fa che mi disturba assai di più delle sgrammaticature. Se si è fuori dalla sala operatoria e non si sta volando, la sciatteria dell'anima è ben più dannosa di quella del pensiero,

Walk the talk” è una bella espressione angloamericana non tanto dissimile dalla nostrana "parla come mangi". Io interpreto quest'ultima in modo personalissimo e interessato: mangiare bene per parlare bene. Pensare e dire parole gustose, chiare, croccanti, genuine, talvolta delicate, ma, quando occorre, ben sapide o piccanti. In ogni caso, che non manchino mai né di sale né di pepe, sennò è assai più saporito il silenzio. Soprattutto che siano parole nostre, fatte da noi, che raccontino la nostra storia, le nostre abilità e le nostre lacune, i nostri pochi pregi e i molti difetti e non invece acquistate surgelate e riscaldate al microonde.

Mi affascina pensare che le parole nascano dal dialogo, dallo scambio, prendano forma, si colorino, acquistino nuovo significato proprio attraverso la conversazione che ne fa da incubatrice. I pensieri si alimentino, le idee comincino a camminare anche solo per fare il giro del tavolo, gli ascolti si incrocino, i silenzi giungano nel medesimo istante, qualcosa accada di molto profondo: una condivisione, uno scambiarsi gli abiti. Ecco che le parole cominciano a scriversi nelle anime, calligrafie indelebili che a distanza di anni, di esperienze, di vita, di lontananze rimangono reciprocamente leggibili, significati che il tempo non impoverisce.

Approdi sicuri quando anni di misero chiacchiericcio ci portano al naufragio.

mercoledì 3 agosto 2011

Homo homini lupus...

In “Una meravigliosa vita da cani” di Graeme Sims è riportata un'antica leggenda Cherokee che parla dei conflitti che ogni uomo porta dentro di sé. La storia mi è stata segnalata da Paolo G. Bianchi (http://www.formazionezero.blogspot.com/) e narra del dialogo tra un capo Cherokee e il suo nipotino.
Nell'animo abbiamo due lupi in continuo combattimento: uno è il male che ci porta rabbia, invidia, gelosia, scontento, rimpianto, avidità, arroganza, autocommiserazione, prepotenza, rancore, meschinità, menzogna, falso orgoglio, presunzione, egoismo. L'altro invece è il bene che ci regala gioia, pace, amore, speranza, serenità, umiltà, bontà, benevolenza, empatia, generosità, verità, compassione, fiducia."
Il nipotino rifletté allora un po' e poi chiese al nonno: "Quale lupo alla fine vince?"
E il vecchio rispose: "Quello a cui darai da mangiare".

Mi piace questo apologo perché riconduce il dilemma bene-male all'intimo di ognuno di noi: i due lupi li abbiamo dentro e siamo noi che li nutriamo. Ovunque invece i due lupi vengono rappresentati vivere vite separate: il lupo Bene siamo noi, onesti, corretti, etici, attenti, sensibili, integerrimi, "in bicicletta". Il lupo Male sono gli altri, egoisti, carrieristi, cinici, spietati, conformisti, "col suv".
Il tutto mi fa venire in mente una discussione cui ho partecipato più di un anno fa in un forum professionale sull'apologo di una rana che porta generosamente sulle spalle uno scorpione nel guadare un fiume. Lo scorpione alla fine uccide la rana, perché è la sua natura. Gli intervenuti alla discussione stigmatizzarono il fatto che molti (sempre gli altri) nelle aziende si comportino da scorpioni, inaffidabili, pronti a pugnalarti, indifferenti al bene comune, ma solo al proprio interesse.

Peccherò di qualunquismo, ma per parte mia continuo a pensare che nella nostra vita siamo spesso rane e altrettanto spesso scorpioni, non per natura, bensì per volontà e circostanze. Peccato che non siamo mai elefanti, sennò ce ne ricorderemmo.
E' facilissimo essere etici e irreprensibili quando non agisci, quando eviti tutte le situazioni in cui i tuoi valori vengono messi in gioco, quando non devi fare scelte, ma non intendo scelte meramente ideologiche: intendo scelte concrete. Licenzio o non licenzio; abortisco o tengo il bambino; me ne vado di casa o resto con la mia famiglia; non cedo e rinuncio ai vantaggi economici, ma salvo la mia dignità o cedo, perdo la faccia, ma coi vantaggi che ne traggo assicuro ai miei figli un futuro migliore?
Tutte le volte che sento qualcuno vantarsi della propria integrità morale, mi viene sempre in mente quell'aforisma che dice che per avere la coscienza pulita basta non usarla. L'ostentazione della propria moralità è una delle cose più insopportabili nelle persone: è una barriera, un guardare agli altri dall'alto verso il basso, un essere totalmente distratto rispetto alle debolezze e sofferenze degli altri e abbacinato invece dal proprio candore. C'è una ricchezza straordinaria negli errori, nell'incoerenza, nei cedimenti, nei tradimenti verso se stessi e gli altri: la ricchezza di un percorso che ti porta forse a capire meglio chi ti sta intorno, a vestirne gli abiti senza puntare dita, senza giudizi, senza bisogno di ridurre le persone all'etichetta che vorresti appiccicare loro addosso. Comprenderli senza volerli cambiare, migliorare, far crescere, formare. Comprenderli solo per aiutare a cambiare te stesso.


G. Gaber - I mostri che abbiamo dentro