martedì 22 novembre 2016

Living Room: lo spazio dove si vive. 1a parte.

Premessa in compagnia di Lucio Fontana

La recente visita allo showroom di oggetti e mobili di design di varie epoche che Daniele Cislaghi è riuscito ad allestire ad Abbiategrasso, grazie ad anni di ricerca e di contatti in tutto il mondo, mi dà lo spunto per qualche riflessione sul nostro rapporto con lo spazio dove viviamo. Innanzitutto osservo con piacere che un'esposizione di begli oggetti in un ambiente curato e opportunamente studiato contribuisce all'innalzamento dell'attenzione per la cultura materiale in un'area del milanese tradizionalmente sonnecchiante e piuttosto arida. Uno spazio privato che diventa per la sua stessa presenza una ricchezza comune e che sarebbe perfetto per ospitare iniziative coerenti con lo spirito che lo anima.
Muovermi in quelle sale mi ha nuovamente fatto pensare ai Concetti spaziali di Lucio Fontana, i suoi tagli nelle tele. Fontana squarcia la bidimensionalità monocroma della tela con tagli secchi, affilati, netti, che sembrano aprire il varco a una nuova dimensione sottostante. Il taglio apre lo spazio chiuso, confinato, della tela. Sotto di essa appare un mondo imperscrutabile o, meglio, solo perscrutabile dalle fessure create, un mondo nero d'ombra, una meta-realtà davanti alla quale l'osservatore non sa più se egli è ancora il soggetto che osserva o se diventa l'oggetto che viene osservato da qualcuno indefinibile e non identificabile che lo guarda al di là dei tagli. È veramente affascinante come la semplice azione del guardare un'opera - un gesto spesso passivo e inconsapevole - possa condurre lontano, verso un'involontaria dimensione esistenziale. Chi sono io, un soggetto che pensa, riflette, decide e agisce liberamente o un povero prigioniero delle proprie convinzioni, ambizioni e abitudini, oggetto dello sguardo commiserevole di qualcuno che neanche riesco a vedere? Sempre, l'arte - quella vera - riesce a parlare senza intermediazioni al nostro cervello e alla nostra pancia in modo imprevedibile e inaspettato.


Lo spazio e le cose: dalla Toscana al Giappone

In inglese il salotto si chiama living room, cioè lo spazio dove viviamo, in cui siamo più genuinamente noi stessi, dove ci riposiamo, leggiamo, scriviamo, ci intratteniamo coi familiari e riceviamo i nostri ospiti. Lo spazio dove la nostra personalità si manifesta, dove diventiamo soggetti. Lo spazio che noi stessi abbiamo disegnato, arredato, riempito. Non è possibile vivere senza una costante dialettica con lo spazio circostante:
una dialettica dinamica, che muta in continuazione. Il nostro muoverci modifica lo spazio intorno e lo spazio condiziona il nostro movimento. Non siamo mai quindi nello stesso posto anche se ci torniamo decine di volte al giorno. Proprio come non riusciamo a bagnarci due volte nelle stesse acque del famoso fiume di Eraclito.

Qualsiasi oggetto modifica lo spazio in cui è collocato, traccia alcune linee invisibili, cattura l'occhio verso se stesso: basti pensare a un albero nel mezzo di un paesaggio toscano o a un airone posato elegantemente tra due risaie. Senza quei testimoni il paesaggio muta di significato, diventa meno visibile, non colpisce la nostra attenzione. Una stanza vuota dalle pareti bianche è qualcosa di essenzialmente diverso dalla stessa stanza in cui dal soffitto penda una scultura di Calder, coi suoi colori, il suo muoversi all'aria, al nostro passaggio, come rami e foglie leggere. La stanza stessa sembra muoversi, ingrandirsi, avere una funzione che le conferisce senso.
La delicata eleganza degli interni delle case giapponesi, così mutevoli grazie all'uso delle pareti scorrevoli, così funzionali a un ideale estetico che sembra improntato al rispetto: un ambiente rarefatto in cui le poche cose tuttavia impongono rispettosamente la loro silenziosa presenza. In cui le persone - come già fece notare Bruno Munari in "Arte come mestiere" - non possono lasciarsi andare a comportamenti fuori misura, perché l'ambiente di carta di riso e listelli di legno rischierebbe di venirne danneggiato. L'armonia si spezzerebbe; quella stessa armonia che trova una sua straordinaria espressione nel tokonoma, l'angolo della casa destinato ad accogliere una pianta, un vaso, un pannello disegnato o una pergamena che ne fanno una sorta di altare laico, naturalistico e spirituale.


La casa e la "strada"

Per contrasto, invece, immaginiamo quelle case - spesso le nostre - piene di oggetti accumulatisi quasi a caso, senza una legge, frutto di viaggi, esperienze, ricordi, disattenzioni. Oggetti che sembrano dover riempire un vuoto e che ci impediscono di muoverci comodamente, ma che tuttavia talvolta hanno il potere di aprire spazi mentali, in cui ritroviamo noi stessi nella memoria di quell'incontro, quell'affetto, quell'avventura di cui non ci resta altro che una foto, un souvenir, un frammento di pensiero ed emozioni. Le persone anziane soprattutto fanno di questi spazi mentali - che si aprono nel vedere o toccare uno dei loro oggetti consumati dal tempo - una nuova dimensione vitale: lo spazio fisico che riescono a percorre con gli anni è destinato a ridursi, i movimenti si accorciano e si rallentano, ma una nuova comfort zone domestica prende forma in cui le coordinate dello spazio e del tempo si sovrappongono; un ricordo è infatti sempre anche un luogo, un'atmosfera, un orizzonte che non ha nulla ha che fare con quello che essi vedono al di fuori della finestra o al di dentro del tubo catodico.

Le case dove abitiamo o gli uffici dove lavoriamo sono segmentazioni dello spazio sia interno sia esterno. All'interno, l'ambiente ha in molti casi destinazioni specifiche legate alle persone, non solo alle funzioni: la camera dei genitori, quelle dei figli, la scrivania del collega, la sedia a tavola in cui si siede "solo" il nonno. Violare queste attribuzioni non di rado crea scompiglio, conflitto. Quel piccolo spazio è percepito come parte integrante della nostra personalità, vederselo sottratto è sentito come violenza, sopruso.
All'esterno, la casa pone i confini tra il nostro spazio privato, quello altrui (i vicini, ad esempio) e quello pubblico. È la casa che fa sì che ci sia un dentro e un fuori, un noi e un loro. La casa può essere pertanto rifugio, protezione, laboratorio, conforto, ma anche tana, prigione, disimpegno, indifferenza. Giorgio Gaber anni fa scrisse una meravigliosa canzone, C'è solo la strada (https://youtu.be/OBthTGY-zZs), in cui, evidenziando i rischi del chiudersi in casa, nel proprio particulare, enfatizzava invece l'importanza della strada come luogo di incontro, di sviluppo della personalità e di crescita della società. La casa aperta è un'efficace metafora di questo bisogno non solo di protezione, ma anche di partecipazione, di confronto. Le splendide architetture di Mies van der Rohe sono il più bell'esempio di spazio domestico dove il confine tra dentro e fuori è indefinibile, di una casa che grazie alle immense pareti vetrate si apre al mondo e alla natura e li fa entrare.
(continua)

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