giovedì 9 giugno 2011

Il cafone aziendale

L’avventura della vita mi ha portato a organizzare un corso di formazione per quadri e dirigenti in una ridente e bella città lombarda del nord est, famosa per l’immasticabile dialetto, l’inossidabile propensione al lavoro dei suoi abitanti, la cucina a prova di Fernet, la ricchezza delle sue casse e la religiosa verecondia delle sue mutande; giacché la curia, in codesta città, si manifesta più onnipotente di quello stesso Signore di cui, da un paio di millenni, s'è presa in carico la promozione, con alterni successi e fantasiose modalità. In una religiosità dei costumi e persino immobiliare.

Il corso per i padri priori dell’operosità e dell’affare era incentrato sui rapporti tra la funzione della produzione e quella commerciale, aree che non di rado faticano a capirsi, ancor meno a stimarsi, spesso amando invece il disprezzarsi.
In aula - la solita anonima aula, inadatta allo scambio maieutico, tipica dei centri di formazione - mi ritrovo sei figuri, il più allegro e sereno dei quali pareva aver inghiottito un flacone di littorio olio di ricino. Cipiglio, sguardo torvo, mascella serrata, risposte monosillabiche: un ambiente già da subito proprio sereno e rilassato.

Tra costoro spiccava uno spilungone con una stramba giacca a metà tra una dinner jacket con il bavero a pinna e un giubbotto sintetico da centauro padano. Scarponi invernali e occhiali scuri di gran moda, dalle lenti azzurrate, che gli davano l’aria lugubre di un uomo della polizia politica di un qualche paese sudamericano, esperto in tuffi oceanici altrui. Davanti a sé, un portatile compatto come una teglia di lasagne, di quelle che si trovano nelle mense nei dì di festa.

Siccome non mi piacciono le barriere e già bastavano e avanzavano i tavoli a tracciare inutili confini nello spazio, gentilmente gli chiesi se potesse riporre la teglia in forno, ma ne ebbi per tutta risposta che a lui non dava alcun fastidio e la lasciò lì dov’era, fissandone lo schermo e picchiettando qualche cosa sui tasti.
Se il buon corso si vede dal mattino, avevo segnali che mi consentivano di fare le più fosche previsioni sullo sviluppo del mio povero intervento.

Invitai allora tutti a spegnere i cellulari e fui molto compiaciuto dal non ricevere alcuna resistenza sennonché, dopo qualche istante, cominciarono a sentirsi le sorde vibrazioni dei medesimi e non una chiamata venne lasciata cadere. Non dissi nulla, cercai di soprassedere. Sbagliando, perché un piccolo seme di frustrazione e rabbia cominciava a buttar germogli in un angolino del mio cervello.

Per una giornata e mezza ho visto di tutto: sbadigli, messaggini inviati e ricevuti, espressioni mortificanti; ogni tanto, occhiate di sfida e segni di disapprovazione. Ma non una domanda intelligente, non un minimo di partecipazione agli esercizi, non il benché minimo segnale di interesse da parte di quasi tutti. E sì che avevo fatto la notte cercando di trovare argomenti che ritenevo potessero essere loro utili; persino spunti per momenti di riflessione individuale, dal momento che intuivo che molti di loro non si fossero mai neppure chiesti se quel che facevano e la vita che conducevano soddisfacessero i loro bisogni.
Con qualche eccezione, mi sentii rispondere che interrogarsi sul lavoro non faceva parte della loro professionalità e che non era la ragione per la quale partecipavano al corso.
Quale questa fosse ancora lo devo scoprire.

Tra frasi denigratorie dei contenuti del corso e atteggiamenti sprezzanti verso di me – mai stato così paziente in vita mia – la mia piantina rabbiosa cresceva rigogliosa e a un certo punto prese il sopravvento. A un’incauta affermazione, infatti, da parte dell’agente segreto sudamericano sul fatto che lui non condivideva – anzi, sul fatto che io sbagliavo nel chiederlo – che i cellulari fossero tenuti spenti, risposi - con perfida serenità - che di solito così pretendevo e che chi non rispettava le regole normalmente veniva invitato ad andarsene. Occorre rispetto per gli altri, ma anche per se stessi e se non si riesce a dedicarsi del tempo, perché diavolo ci si iscrive a un corso?
Continuai col precisare che questa volta tuttavia non avevo insistito perché non si trattava di un corso sulla leadership, giacché il tenere il telefono acceso non è solo una questione di cafonaggine, ma anche di mancanza di leadership e che siccome non potevo preoccuparmi io del loro bon ton e la leadership non era l’argomento del nostro incontro, avevo preferito lasciar correre.

L’hidalgo impallidì assumendo un sinistro colore grigio chiaro rispetto al grigio antracite che aveva avuto fino ad allora e con lui impallidirono i peggiori tra gli altri ceffi: nessuno si era evidentemente mai permesso, durante un corso, di dire loro che non avevano leadership.
Allora, uno di questi, collaboratore del sudamericano, dalla crapa pelata e la mascella volitiva che ricordava facilmente altri buffoni da balcone, indispettito, guardandomi fisso con due occhi di bragia che sopperivano alla totale mancanza di acutezza espressiva, mi domandò perentorio “in che senso mancheremmo di leadership?”.
Molto pacato, comprensivo, ma con l’aria di un medico che deve dare un’inappellabile sentenza mortale, replicai “Nel senso che se ha la necessità di rispondere continuamente al telefono per soddisfare i bisogni altrui (il capo, la moglie, l’amante), significa che altri sono i padroni della sua libertà. La sua libertà non le appartiene più, il suo posto è stato preso dalla voglia di conformismo. Nessuno di voi ha ruoli e responsabilità tali da essere insostituibile; il cellulare che suona in realtà vi rassicura, vi dice che l’azienda non si è dimenticata di voi, la vostra nuova mamma non vi ha abbandonato e il papà vi sgrida, ma vi protegge”. Esageravo ovviamente, ma sapevo di esagerare.

Il ducetto rimase senza parole, negli altri lo stucco che già occupava la scatola cranica ingessò ogni muscolo del viso, fissandoli in una statuaria espressione di resa incondizionata, incapaci com’erano di nuotare nel mare di letame in cui avevo deciso di farli cadere. Non si aspettavano, tapini, che lo spugnoso e paziente formatore che fino a quel momento avevano dileggiato, pensando non se ne rendesse conto, prendesse le sembianze di colpo dell’insegnante più carogna le cui angherie ognuno di loro aveva subito ai tempi della scuola.

Chiusi il corso così, infischiandomene dei loro feedback, ma sicuro di aver fatto almeno due cose buone: l’aver preteso e ottenuto rispetto per me e il mio lavoro e l’averli aiutati a essere un po’ più consapevoli di loro stessi e forse – in futuro – un po’ meno cafoni.

La parola Io - Giorgio Gaber

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