venerdì 27 maggio 2011

Facimme ammuina...

La domanda posta pubblicamente da un amico e collega su LinkedIn su come, da consulenti, pensiamo di contribuire a creare un’Impresa Diversa (le maiuscole si debbono all’importanza che l’amico-collega dà all’argomento) mi ha stimolato alcune brevi riflessioni su di me. L’amico-collega ha sottolineato più volte la necessità del pensiero critico in azienda, del rimettere in discussione tutti i paradigmi, innanzitutto quello dell’azione e del fare presto e subito.
E’ vero che nelle aziende la retorica del fare sta creando danni a non finire, soprattutto ai cervelli di chi le dirige: un fare fine a se stesso, senza riflessione sugli obiettivi del pianificare e del fare.
La frase più cretina che sento dire è “tutto deve essere pronto per ieri”, come se il ritardo, la mancanza di comprensione delle urgenze non abbia una ragione precisa e cause che dovrebbero essere esplorate con più attenzione del fare purché si faccia. Tuttavia è altresì vero che le aziende esistono per produrre oggetti e servizi, non discussioni, sennò sarebbero accademie o parlamenti. Soprattutto, i consulenti non vengono pagati per dare dei mentecatti ai manager o per fare casino, ma per arrivare a dei risultati accettabili. Tra questi però non credo ci sia il conformismo a ogni costo che nasconde atteggiamenti del tipo “Lei paga, quindi Lei ha sempre ragione, signor Dottor Direttore Generale, slurp…”.

Per parte mia cerco di ascoltare, osservare e capire i soggetti che ho davanti: l'impresa nel suo insieme, l'imprenditore (quando c'è), il dirigente/manager, le persone coinvolte. Capire significa per me cercare di cogliere e raccogliere una serie di dati: obiettivi individuali, collettivi (se ci sono), criticità di ognuno, input di cui ogni parte ha bisogno per il proprio lavoro e output che produce, interessi sottesi (non sempre coincidono - in positivo e in negativo - con le posizioni o gli obiettivi dichiarati), bisogni (non vado nel profondo, non ne ho le competenze. Mi fermo ai bisogni materiali, di informazione o di considerazione che ognuno ha per poter fare il proprio lavoro). Dopodiché ricostruisco il puzzle, come un investigatore ricostruisce le testimonianze, analizzo i pezzi che "non si incastrano", le incongruenze e cerco possibili spiegazioni e soluzioni condivise o condivisibili, compromessi, cerchi e botti cui dare alternativamente colpi.
Uso spesso lo zoom per vedere le cose da vicino e da lontano: infatti il diavolo si nasconde davvero nei dettagli più insignificanti e mi piace la visione di insieme per capire anche quali siano le variabili o le persone non apparentemente coinvolte. Non ho modelli di riferimento da suggerire o imporre, soprattutto non me li ricorderei, e non vado a fare rivoluzioni: cerco di rispettare sempre quello che vedo, anche quando non mi piace. E' comunque il frutto (acerbo, maturo o marcio) degli sforzi e - spesso - delle migliori intenzioni di molti.

Non di rado, tanti problemi sono dati dalla mancanza di comprensione, dagli atteggiamenti prevenuti, ma il confronto aiuta a superarli. La sfera del fare per me rimane fondamentale: nel fare c'è discussione, ripensamento, gioco, spontaneità, creatività, stimolo. Nel fare, lo scambio e le idee devono prevalere sulle gerarchie. Io mi considero un po’ come l'olio lubrificante per una macchina che, attraverso le relazioni, canalizza diversi punti di vista verso risultati concreti.

Credo che il pensiero critico sia utile ex post, in fase di valutazione di quello che è stato fatto e dei risultati. In fase ex ante - secondo me - rischia di non fare andare invece da nessuna parte. Immobilizza, se è una critica fine a se stessa.
Mi piace di più l'idea del fare intelligente: espressione forse presuntuosa, ma - credo - efficace. Che non esime naturalmente da tutte le doverose considerazioni sugli obiettivi e le modalità per raggiungerli, ma cerca di indirizzarle verso un risultato.
Successi, rispetto almeno alle mie aspettative? Talvolta sì e talvolta no. Ogni situazione è a se stante. Io cerco di fare del mio meglio e quello che penso possa essere il meglio per chi mi ha onorato della sua fiducia dandomi un incarico.
Dico quello che penso se è utile che lo faccia, sennò sto zitto per non fare danni, cercando di essere diplomatico nella forma, ma non nei contenuti. Quando mi si chiede di violare quello in cui credo, mando a quel paese, costi quel che costi. E talvolta costa caro.

mercoledì 11 maggio 2011

MBA: l'etica c'è, ma non si vede.

Settimana scorsa, con l’amico Fabio, sono andato per curiosità alla presentazione del corso MBA organizzato dalla MIP, la business school del Politecnico di Milano. L’incontro si teneva nella moderna sede della Bovisa, un concentrato di cemento, lamiere, cristalli e spazi chiusi.
Ordinata, pulita, efficientista, un po’ anonima e – suppongo - timorosa della natura, delle fronde degli alberi e delle foglie, dal momento che le poche piccole finestrelle di una sala ad anfiteatro erano non solo sigillate, ma adeguatamente schermate affinché nessuno potesse pensare che ci fosse della vita là fuori.
Vi era anche una striscia di verde che ho scoperto essere una specie di campo di concentramento per i pochi fili d’erba, cintati da reti e inferriata, evidentemente per timore che l’erba potesse scappare e diffondersi in giro portando elementi di disordine alle cartesiane menti ingegneristiche. Qui e là bottiglie vuote di polietilene, fogli di carta strappati di cellulosa purissima, piccioni a guardia delle suppellettili.
Era sabato e non c’era un bar aperto, neppure di quelli gestiti da quegli umanoidi che ti danno il caffè senza guardarti e senza che tu l’abbia chiesto. Tuttavia di gente, tra corsisti e curiosi, ce n’era parecchia.
Dopo una sosta alle macchinette automatiche per sorbire una bevanda e fare quattro chiacchiere col display, siamo entrati nell’aula e ci siamo uniti ai pochi presenti per ascoltare due ore di esposizione di slide a prova di microscopio elettronico e due testimonianze di valorosi studenti che, per fare un’esperienza così bella come il master, hanno convinto le loro novelle spose a rinunciare al viaggio di nozze. Per mancanza di soldi? Macché, per mancanza di tempo! I giovanotti si sono detti fieri di essersi concessi il lusso, dopo tanto sgomitamento al lavoro, di poter frequentare un così bel corso che porterà indubitabili vantaggi alla loro carriera.
Mi sono reso conto a quel punto che avevo del “concedersi il lusso” un’idea piuttosto diversa e – deduco – sbagliata. Pensavo significasse fare un bel viaggio esotico, acquistare una bella torpedo blu per andare a prendere di sera signore di fluorescente bellezza, sedersi in qualche bistellato Michelin tra cristalli, argenti, lini e sugheri di grande annata. No, non avevo proprio capito niente: il lusso è usare il tempo fuori dal lavoro per fare qualcosa che serva per il lavoro. Aveva ragione una mia vecchia amica non molto fluorescente: nella vita non sarò mai nessuno.
Una volta terminate le esposizioni e le testimonianze, giunge il momento fatidico “Q&A”, dove qualcuno dovrebbe fare domande e qualcun altro rispondere. Come al solito, di domande ce n’erano pochine tranne quelle che tutti si fanno “non ci sono domande perché abbiamo capito tutto, perché non sappiamo che cosa chiedere o perché non vediamo l’ora di andarcene?”. Io una risposta ce l’avrei avuta, ma per educazione decisi di contribuire affinché la relatrice non se ne tornasse a casa con troppi dubbi in proposito. Per un'ingegnere – anche se donna - avere dubbi potrebbe essere dannoso, potrebbe farle male, costringerla a pensare in modo creativo e magari irrazionale. Eccomi lì quindi, come ancora di salvezza, a chiedere “mi scusi, come mai non c’è un corso di Business Ethics nel vostro programma? Al MIT e a Harvard è dal 2008 che si domandano se con gli MBA non hanno fatto grandi pasticci vista la crisi che è scoppiata anche per le dissennatezze e i comportamenti, a volte criminali, di una classe dirigente molto brillantemente masterizzata. E’ iniziata una fase di ripensamento profondo dei contenuti e del modo di fare management. E voi?”.
La povera relatrice non poteva immaginare che la sua ancora di salvezza potesse rivelarsi tutto a un tratto un giuda traditore. Ma sono domande etiche queste che mettono in crisi chi deve rispondere?
Superato l’imbarazzo e la sorpresa, mi viene spiegato che nel programma l’etica c’è ma non si vede. Non è stato previsto un corso specifico perché gli esperti del MIP hanno ritenuto fosse un argomento trasversale e soprattutto perché, come garantiscono al dipartimento di ingegneria gestionale, le ricerche sull’argomento sono ancora agli inizi.
Da giorni mi chiedo chi stia ricercando che cosa e dove, ma confesso di essere ignorante in materia di ingegneria della morale.
Non ho avuto la sfrontatezza di replicare che da Adamo ed Eva e la cacciata dal paradiso, l’etica è sempre stata abbastanza presente nelle cronache di giornali ed ebdomadari; ho poi evitato di parlare di mele e serpenti perché temevo che la nostra ingegneressa potesse pensare che io stessi insinuando che la morale fosse un argomento per biologi e scienziati naturali e non per ingegneri gestionali.
E’ ben vero che si tratta di un argomento trasversale che rientra in tutte le discipline, ma è altrettanto vero che non tutti hanno il linguaggio, la cultura e la capacità di riflessione necessarie per poterne parlare senza banalizzare. Tutti possono chiedersi se quel che fanno sia bene o sia male, se sia giusto o ingiusto, se abbia conseguenze che vadano oltre la propria esistenza oppure no; se l’idea di bene che si possiede sia una e comune a tutti o se ci siano tante idee diverse quanti sono gli uomini. Tutti possono farlo per se stessi: la riflessione non è monopolio di nessuno. Tuttavia, per parlarne a qualcun altro occorrono persone preparate, persone che coniughino il pensiero al comportamento e si interroghino sull’uno e sull’altro con gli strumenti adatti. Per questo hanno inventato i filosofi; per questo i filosofi andrebbero reclutati in un Master in Business Administration in cui si capisca che non sono tanto le risposte a contare, ma la capacità di farsi le domande. Mentre le une infatti mutano col tempo, le altre sono immutabili e ci accompagnano per tutta la vita.

Alla fine io e Fabio ce ne siamo andati a mangiare, chiedendoci l’un l’altro perché mai uno debba frequentare un corso del genere ed entrambi stiamo cercando ancora la risposta.

sabato 7 maggio 2011

Volere e potere: riflessioni sul venditore di Hotdog

Mi piace molto l'apologo dell'uomo degli hotdog e mi ha sorpreso aver letto, su alcuni social network dove è stato pubblicato, commenti che invitavano a non prenderlo sul serio, a non farsi illusioni, a non dare credito all'ennesima americanata per persone mai cresciute. Volere non è potere. Ci è mancato poco che quacuno tirasse fuori il fantasma del Trionfo della Volontà della Riefenstahl o il concetto di volontà di potenza. C'è addirittura chi ha lamentato la scarsa diffusione del pensiero critico, unico antidoto a queste facili seduzioni per menti deboli. Si è sottolineato come tali ottimismi siano destinati a generare solo disillusione, frustrazione e scacco. Volere – ribadiscono - non è potere. La crisi economica e morale sarebbe da considerare un dato di fatto ineluttabile contro cui non si può far nulla tranne un bagno di presunto realismo. Gli hotdog non si vendono perché nessuno se li può permettere: ci sono i precari, i disoccupati, quelli che non arrivano alla fine del mese.
Tutto vero, sia chiaro, non sono bei tempi i nostri, non sono tempi di vacche grasse di certo, ma è la fissazione arbitraria di un rapporto di causa ed effetto che mi lascia perplesso.
Facciamo un salto indietro, per un attimo. Nel 1929, Wall Street crolla, il Reichsmark non vale la carta con cui è fatto, c'è una crisi di liquidità spaventosa, la gente si uccide per la disperazione. E' appena finita quella carneficina della Prima Guerra Mondiale, ma ad essa non è seguita nessuna ripresa economica, anzi. Da 7 anni l'Italia non è più uno stato liberale, ma è governata da una dittatura che svelerà tra breve il suo vero volto totalitario; il paese è in pieno sottosviluppo, milioni di persone emigrano. Intanto una nuova lunga guerra si sta profilando all'orizzonte, una generazione in pochi anni non ci sarà più, la precarietà non è solo economica.
Ebbene, mio nonno nel 1929 - in piena crisi mondiale – testone, ha voluto fondare una sua azienda. Tra alti e bassi, l'azienda continua a esistere tuttora: è stata più longeva del nonno, dei suoi figli, di qualche suo nipote, del Reich millenario, del fascismo e dell'Unione Sovietica. Eppure il nonno aveva tutti contro, non una lira in tasca e un mucchio di debiti sottoscritti da cambiali. Tutte onorate, a quel che, da nipote, mi consta. E non si tratta di una favola.
E' certamente vero che volere non è sempre potere, ma è altresì vero che non volere è sempre non potere. E l'unico modo di sapere se "si può" o "non si può" è provarci. E non c'è filosofo, crisi, weltanschauung, profeta, sibilla, oracolo che ci possa esimere dal provarci.
Mi chiedo quante volte dietro l'affermazione "non si può", non si nasconda la paura di tentare e cambiare o il timore insopportabile che ci riesca qualcun altro togliendoci ogni scusa. Mi stupisce non poco che volere fare qualcosa e provarci pur non avendo nessuna certezza di riuscirci significhi non avere pensiero critico, essere magari un po' stupidotti o condizionati dal modello culturale anglosassone, come se il modello culturale anglosassone non fosse figlio dell'illuminismo e del positivismo, ma dei luna park. Se c'è un pensiero fortemente caratterizzato dal pensiero critico e dalla libertà di indagine, questo è quello anglosassone. Che preferisco ampiamente alla rassegnazione, quella sì acritica e che confonde con straordinaria presunzione la realtà che vede con tutta la realtà: il mondo si esaurisce sulla mia scrivania, la mia stanza è l'universo. Non male, la “volontà d'impotenza” come simulacro di onnipotenza. Altroché voler vendere salsicce a precari, disoccupati o semplici golosi.
Nel cartone animato "La principessa e il ranocchio" una cameriera nera sogna di aprire un ristorante e alla fine ci riesce. Secondo un filosofo acuto, sarebbero cose da non raccontare ai bambini che in questo modo si possono fare illusioni. Dovete rassegnarvi, bambini, perché quando, in quell'altra favola, il lupo si è mangiato la nonna e Cappuccetto rosso, se le è proprio masticate e digerite. Non le troverete vive nella sua pancia. Sono morte sbranate, capito bambini? Sono ormai un bolo grumoso di sangue, ossa e dentiera nello stomaco della belva, non ci sono più. Scordatevele; il cacciatore vi ha imbrogliato. E voi bambini neri, non crediate di potervi mettere in testa di diventare magari – che ne so – ristoratori o – figurarsi - presidenti degli Stati Uniti. Siete matti? I presidenti degli Stati Uniti sono solo bianchi! O no?...
Verrebbe da pensare che forse i filosofi non capiscano granché di cartoni animati... o, più semplicemente, che solo con la volontà si costruisce e solo facendo, creando, si viene a contatto coi propri limiti e si può imparare a superarli o ad accettarli.

Il venditore di Hotdog: un apologo

http://formazionezero.blogspot.com/2011/04/pensiero-del-fine-settimana_14.html

Riporto volentieri questa storiella pubblicata da Paolo G. Bianchi sul suo blog formazionezero.

Pensiero del fine settimana  

"Un uomo viveva ai margini di una strada e vendeva hotdog presso una bancarella allestita vicino alla sua abitazione. L'uomo era sordo e quindi non possedeva una radio, inoltre la sua vista, che con il passare del tempo si era notevolmente indebolita, non gli permetteva di leggere i giornali. Una cosa però era certa: l'uomo vendeva degli squisiti hotdog.

Lungo la strada aveva sistemato dei cartelloni pubblicitari per promuovere la sua attività, ponendo in evidenza la squisitezza degli hotdog che preparava. Con grande entusiasmo gridava ai passanti: "Signore e signori, venite a provare i miei succulenti hotdog!" e i passanti correvano a comprarli. La sua attività era così fiorente che l'uomo dovette procurarsi scorte aggiuntive di pane e salsicce per poter soddisfare i tanti clienti. 
Nonostante la fatica del lavoro l'uomo era soddisfatto e felice. Si procurò persino un fornello più potente per soddisfare la gran richiesta di hotdog e per far prosperare il commercio.

Poichè il lavoro era tanto e da solo non riusciva a farvi fronte, dovette chiamare suo figlio in aiuto, il quale studiava all'università. Ma quest'ultimo, anzichè incoraggiare il padre nella sua attività, prese a dissuaderlo: "Ma papà, è vero che tu non ascolti la radio nè leggi i giornali, ma ti assicuro che gli esperti prevedono un'ondata di recessione. La situazione internazionale è preoccupante e quella nazionale, poi, è perfino peggiore".

Naturalmente le notizie assai poco allegre ricevute dal figlio non mancarono di mettere in allarme il padre che formulò la seguente riflessione: "Dopotutto, mio figlio ha frequentato l'università, ascolta la radio e legge i giornali, sa come gira il mondo, immagino che abbia ragione lui".

L'uomo si affrettò a ridurre le ordinazioni di pane e salsicce, rimosse i cartelloni pubblicitari e si allontanò persino da quella strategica posizione lungo la strada da dove aveva sempre venduto i suoi hotdog. Ben presto le vendite subirono un drastico calo.
"Avevi ragione figlio mio, siamo entrati davvero in un grave periodo di recessione".

dedicato a chi...crede nella crisi e credendoci la fomenta...

giovedì 5 maggio 2011

Cheers

Inauguro oggi il mio blog. Perché ho creato un blog? Non saprei, al momento. Forse sono quelle cose che si scoprono man mano che si scrive.
Lo devo al mio amico Marco che mi ha suggerito l’impresa: mi ha detto che avendo già un mio sito professionale e, essendo già su Facebook, LinkedIn e aNobii, sarebbe stato un utile complemento avere un blog, “per far capire chi sei”. Una frase che mi ha non poco preoccupato: faccio fatica da solo a capire chi sono, figuratevi un po’ se voglio che lo capiscano gli altri. Tuttavia sono molto vanitoso – e questo lo intuisce chiunque – e l’invito suonava sinistro, sì, ma irresistibile. Ed ecco fatto.

Non vi dico la fatica di trovare un layout che mi piacesse: già ho difficoltà tecniche di mio, avrei voluto mettere foto e altri elementi, ma ancora non ho capito come si fa. Magari nei prossimi giorni scoprirò l’arcano.

Perché “Lemon Twist and Olives”? Perché amo il Martini cocktail, che domande! E perché amo la scansione del tempo che il Martini dà: l’attesa durante la preparazione, il gesto sicuro, ma elegante, del bravo barman, il bicchiere degno del MOMA, l’allenamento che richiede il reggerlo con grazia e fermezza e la meravigliosa conversazione che facilita.
Col Martini tra le dita non si dicono sciocchezze, si riflette, ci si rilassa, il cervello si tempera a punta, ma il sorriso ne arrotonda le frasi. Col Martini, è vero, ci si consola, ma preferisco pensare che con esso si facciano progetti, si stringano alleanze, si compongano fratture. Si seduca e si venga sedotti.

Il bello arriva adesso, cioè cercare che cosa diavolo scrivere su un blog. Non gli articoli professionali che finiscono sul mio sito www.lucafornaroli.com, non gli impressionismi, i malumori, i lazzi o le indignazioni che popolano Facebook o le lunghe considerazioni su management e dintorni che scrivo sul gruppo di Impresa Diversa di LinkedIn, tantomeno le recensioni delle mie letture che destino invece ad aNobii. Ma allora cosa? Pensieri in libertà, ma un po’ strutturati? Ma se sono in libertà, non sono strutturati, la contraddizione sarebbe palese. Racconto della mia vita? Per l’amor del cielo, faccio già abbastanza pasticci nel silenzio. E allora che cosa?
Vabbè, lo scoprirò, vedrò che piega prendere e, soprattutto, che piega mi faranno prendere i lettori o, meglio, gli ospiti, giacché credo che il blog sia un po’ come lo studio di casa: si riceve, si discute amabilmente, ci si confronta anche in modo serrato, ma da buon anfitrione e da ospiti a modo, secondo le sane, vecchie regole borghesi.
Quelle stesse che mi inducono ora a offrirvi questo primo Martini. Lemon twist o oliva? Il cocktail party incomincia. Alla nostra.